Perché ci sono così poche donne in prigione?
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Orchesse, streghe, lécheuses de guillotine (nome spregiativo che veniva dato alle donne che accorrevano in piazza quando c’era una esecuzione capitale), virago, amazzoni, arpie, rivoltose, pétroleuses (sostenitrici della Comune di Parigi, accusate di aver provocato diversi incendi a Parigi nel Maggio 1871)…. Al cinema, nella letteratura e nei media, quando le donne sono messe in scena come soggetti violenti, è per rappresentarle come ” isteriche “, vale a dire bisognose di cure. Non si mettono i matti in prigione.
Nell’immaginario collettivo, la violenza maschile è razionale, perché è parte di una logica di difesa territoriale, il maschio uccide per proteggere la propria femmina o il proprio Paese. La femmina, invece, sembra uccidere solo sotto l’effetto della follia uterina, abbandonata completamente ai suoi ormoni e ai suoi istinti squilibrati… La frustrazione probabilmente. In genere si pensa ad una assassina come ad una persona “sessualmente insoddisfatta” o peggio “una frigida squilibrata” che serve ad un tempo per giustificare (la poverina) e per classificarla nella categoria degli ‘”irresponsabili”.
In un libro dal titolo Penser la violence des femmes, le sociologhe Coline Cardi et Geneviève Pruvost hanno raccolto una quantità inedita di particolari storici, antropologici, sociologici, linguistici e letterari, per capire meglio : le donne sono violente come gli uomini? Lo sono in modo diverso? Perché la loro violenza è ignorata? Perché si tende a scusare le criminali, con il pretesto che si tratta di donne (significato: le poverine)?
“Per capire, è importante per uscire da questa doppiezza apparentemente paradossale che, da un lato, fa della violenza del sesso debole un tabù, ignorando comportamenti ricorrenti e, dall’altro, ipertrofizza la violenza per stigmatizzarne gli eccessi. In entrambi i casi, si tratta di produrre e riprodurre la differenza di genere “, hanno spiegato Coline Cardi e Geneviève Pruvost.
Nel loro libro, l’esistenza di questo tabù, chiaramente denunciato, è oggetto di numerose analisi critiche. “La violenza delle donne può essere uccisa, negata, riqualificata, sotto-stimata. E’ quello che viene definito “violenza fuori ruolo“, ” dicono le autrici, citando numerose ricerche approfondite. “Così ci si interroga regolarmente, per esempio, sull’arrivo di bande di ragazze nei quartieri, vi è preoccupazione per la loro violenza è si dice che non solo è in aumento, ma anche che essa tenderà a diventare simile o addirittura superiore a quella dei maschi. Si mette dunque in scena, soprattutto nei media, una crudeltà molto femminile, e ci si preoccupa di questa indistinzione sessuale che avanza“.
Il tutto, veicolato dai giornalisti, fa si che gli uomini di legge si indignino, si preoccupino e parlino di un fenomeno considerato “nuovo” (che è falso), contribuendo a mascherare una parte della storia e a riaffermare le differenze fra i sessi: ufficialmente, le donne sono considerate di buon carattere e il fatto che alcune di loro commettano atti di violenza estrema è considerato anormale. A volte, si arriva ad attribuire questo “nuovo fenomeno” alla liberazione della donna. Ovviamente, una donna che rivendica gli stessi diritti degli uomini, non può che diventare violenta … Proprio come coloro che desidera copiare.
“Questo discorso allarmista – che si è intensificato alla fine del 1990, in particolare con il caso della banda delle ragazze di Tolone (…) non è nuovo. Per citare solo un esempio, ecco quello che si poteva leggere su Le Monde nel 1995:
“Nel pomeriggio di Sabato 13 maggio, a casa di una di loro, nel quartiere Canet di Marsiglia (14 ° arrondissement) le tre ragazze hanno picchiato una delle loro amiche, di 15 anni, con pugni, ginocchiate e bastonate. Le tre ragazze hanno confessato di aver provocato bruciature sul corpo della ragazza con le sigarette, di averle tagliato i capelli e strappato i vestiti, prima di rubarle i gioielli. […]. Alla luce di questi fatti “intollerabili in una società civile”, e coscienti “di fare appello alla legge e alla morale” il giudice minorile ha chiesto un mandato di arresto contro le tre ragazze. […] Al tribunale di Marsiglia, ci si sorprende di “Questo allarmante aumento della delinquenza femminile” e della “violenza estrema dimostrata da queste tre ragazze.” “Non è con l’allegria nel cuore che abbiamo posto delle ragazze così giovani in stato di detenzione, dice il giudice, ma i fatti hanno condotto inevitabilmente a questa severità”.
Come sottolineano le sociologhe di Penser la violence des femmes, l’espressione di questo “panico morale” è ricorrente da due secoli. “Negli anni Quaranta e Cinquanta negli Stati Uniti, sono stati segnalati casi di violenza irrazionale da parte di ragazze in bande giovanili. Il periodo che seguì la rivoluzione del 1968 e il Movimento di liberazione della donna vide rivivere questi allarmismi. L’argomento è il seguente: l’emancipazione delle donne porterà ad un nuova criminalità femminile, con reati più violenti che tenderanno ad eguagliare quelli degli uomini. A proposito di questa ipotesi, Dvora Groman e Claude Faugeron hanno parlato di una “correlazione spuria”: non solo riproduce l’ideologia di genere, ma è statisticamente falsa perché le cifre rimangono stabili. Ciò vale anche per il periodo attuale: il tasso è rimasto costante. La percentuale di donne, maggiorenni e minorenni, che sono chiamate a comparire in tribunale oscilla tra il 9 e il 15%. “
Coline Cardi e Geneviève Pruvost definiscono questo un “meccanismo di non riconoscimento dei fatti”. In altre parole: quando i media esagerano la violenza delle donne è per gettare un anatema contro un comportamento ritenuto “anomalo” e “nuovo”. In realtà, gli atti di delinquenza femminile sono fatti costanti nella storia. Ciò nonostante, agli occhi del pubblico in generale, le donne sono esseri incapaci di fare del male: sono “deboli” fisicamente, non è vero? E sono loro che danno la vita. Come potrebbero tradire la loro natura, fino a questo punto?
Altro argomento comunemente utilizzato da coloro che ritengono che le donne siano persone “non-violente”: le cifre. “Guarda le statistiche. Ci sono molte meno donne in prigione rispetto agli uomini” Questo è vero. Ma per ragioni che sono interessanti da esaminare (1) … Come si fa a mettere in carcere una persona che per secoli ha ricevuto lo status giuridico di minore e di assistita? Attualmente, le donne non vanno in prigione, ma in strutture detentive “più morbide”, come le case di ” cura ” o gli ospedali psichiatrici. Per Coline Cardi e Geneviève Pruvost, dobbiamo diffidare dei numeri. Dovremmo anche cercare di capire cosa si intenda per “violenza”. “Si tratta di aggressioni? Di insulti quotidiani? Di condotta impropria, umiliante? Da che si chiede agli uomini se essi subiscono violenze, si è visto che rispondono di si circa il 20% di loro, più o meno lo stesso numero delle donne.
Purtroppo, gli stereotipi sono duri a morire. Ufficialmente, le donne non sono violente. Oppure lo sono come gli uomini, perché vogliono copiare il sesso forte… Le poverine.
“Questo stereotipo potente è come un rullo compressore che attribuisce condizioni di non-pericolosità sociale rendendo così le donne depoliticizzate su questo argomento, concludono Coline Cardi e Geneviève Pruvost. Pratiche e discorsi egemonici che naturalizzano, biologizzano, psicologizzano, psichiatrizzano, etnicizzano, non fanno che riprodurre la gerarchia di genere e implicitamente o esplicitamente difendono il principio della disuguaglianza di genere in termini di potere di esercizio della violenza. Perché la violenza è potere. Si pensi alle restrizioni per l’accesso delle donne – come si fa nei confronti dei colonizzati – alle occupazioni in campo militare e di polizia, posizioni nodali che si basano sul potere delle armi nelle nostre società, ivi comprese quelle democratiche. Se le nostre società sostenessero la non-violenza e portassero avanti sul serio questo progetto politico, la violenza delle donne non sarebbe considerata una forma di emancipazione e non sarebbe necessario formare a questo punto una categoria di genere con la missione di pacificare la morale’.
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LE CIFRE DELLA VIOLENZA FEMMINILE
Coline Cardi e Geneviève Pruvost: “Siamo in effetti di fronte ad una chiara asimmetria sessuale. In tutte le fasi del sistema di giustizia penale, le donne sono largamente sotto-rappresentate in termini statistici: rappresentano il 14% degli individui che hanno avuto problemi con la polizia, il 9% di tutte le persone che hanno avuto problemi con la giustizia e il 3,4% della popolazione carceraria. Come spiegare una tale situazione?
La storia offre su questo punto una parte della risposta e chiede di riconsiderare questa asimmetria. La percentuale delle donne in carcere è stata molto più importante negli ultimi secoli: esse rappresentavano un terzo della popolazione carceraria, alla fine del 18 ° secolo. Si osserva una caduta storica del tasso di donne imprigionate in tutto il 19 ° secolo, che mette a tacere tutti i discorsi sulla presunta “esplosione” attuale della delinquenza femminile. Questo calo è dovuto alla scomparsa di alcuni reati (tra cui i tumulti per la sussistenza) di cui venivano incolpate le donne o la loro depenalizzazione (il “delitto di fagotto”, l’aborto o l’emissione di assegni a vuoto, nel 1991). Questo svela anche il processo storico che ha visto più donne assegnate alla maternità e allo spazio domestico, supponendo altri tipi di controlli.
Un secondo fattore esplicativo porta a guardare al trattamento penale delle donne. A questo livello, vi è un fenomeno di sottostima della criminalità femminile e una forma di protezione della donna, in particolare riguardo al rischio di incarcerazione. In due parole: un giudice è riluttante a mandare una donna in prigione. Questa clemenza è relativa e selettiva. Sul trattamento favorevole nei confronti delle donne vi è l’influenza di stereotipi di genere: coloro che vanno protette sono coloro che soddisfano le aspettative relative al loro sesso. Le (“buone”) madri e coloro che si presentano come vulnerabili otterranno un migliore trattamento. Una donna senza documenti, senza figli, possibilmente autrice di reati violenti sarà invece trattata come un uomo, o sarà criticata per la sua trasgressione alle tradizionali mansioni di genere.
Anzitutto, dire che le donne sono meno violente perché sono meno presenti in carcere non è sufficiente. Dobbiamo invertire la domanda e chiederci: se le donne violente non sono in carcere, dove sono? Dobbiamo quindi considerare anche il settore della protezione sociale e familiare per poter osservare una devianza femminile equivalente a quella maschile. Se le donne violente vengono trattate in istituzioni diverse rispetto agli uomini, questo richiede di considerare anche le istituzioni di “cura” così come si fa nelle carceri. Questi luoghi, che sembrano garantire delle forme lievi di pena, non creano altre forme di violenza, come la medicalizzazione e la psichiatrizzazione a oltranza? “.
Agnes Giard
Leggi l’articolo originale:
Pourquoi y a-t-il si peu de femmes en prison ? Les 400 culs, Liberation
Riproduzione autorizzata, traduzione a cura di psicolinea.it.
Immagine:
Fiore S. Barbato, Flickr
A37/A17
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Agnès Giard autrice di libri, giornalista e dottore in antropologia, ha lavorato in passato su nuove tecnologie, artisti underground e cultura popolare giapponese, prima di dedicarsi alla sessualità. Nel 2000, è diventata corrispondente per la rivista giapponese SM Sniper con cui lavora da più di dieci anni. Nel 2003 ha pubblicato un libro d’arte in Giappone: Fetish Fashion poi ha iniziato una serie di ricerche che saranno pubblicate in collaborazione con artisti contemporanei giapponesi come Tadanori Yokoo, Makoto Aida, Toshio Saeki, etc. Il suo primo libro, L’Imaginaire érotique au Japon, tradotto in giapponese, è classificato 4 ° tra i libri stranieri più venduti. La sua biografia completa è disponibile qui:
http://sexes.blogs.liberation.fr