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La terapia riparativa dell’omosessualità
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ANCONA FABRIANO TERNI CIVITANOVA MARCHE E ONLINE
La terapia riparativa, detta anche “terapia di conversione”, è una pratica psicoterapeutica che si propone di modificare l’orientamento sessuale di una persona, generalmente dall’omosessualità all’eterosessualità. Questo approccio, tuttavia, è stato oggetto di ampie critiche da parte della comunità scientifica e delle organizzazioni per i diritti umani, che ne mettono in dubbio l’efficacia e, soprattutto, l’eticità. Cerchiamo di capire meglio di cosa si tratta.
Cos’è la terapia di conversione, o riparativa?
Secondo la British Psychological Society (BPS), la terapia di conversione – a volte chiamata “terapia riparativa” o “terapia di cura per i gay” – è una terapia che ha l’obiettivo di cambiare l’orientamento sessuale o l’identità di genere di un soggetto. In pratica, significa cercare di impedire alle persone di identificarsi in un genere diverso da quello registrato alla nascita, o di avere un orientamento omosessuale.
Quando è nata questa terapia?
La terapia riparativa ha origine nei primi decenni del XX secolo, in un contesto in cui l’omosessualità era considerata una patologia mentale. Questa visione si è riflessa, per anni, anche nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM). Nel 1973 l’omosessualità fu rimossa dalla lista dei disturbi mentali, ma alcune frange della comunità psicologica e religiosa hanno continuato a promuovere interventi volti a “curare” l’omosessualità.
Chi sono i maggiori teorici di questa terapia?
I principali teorici della terapia riparativa sono stati Charles Socarides (1922-2005) e Joseph Nicolosi (1947-2017), che hanno dato vita alla NARTH (National Association for the Research and Therapy of Homosexuality), nata nel 1992. Questa associazione si rivolge ai non gay, cioè a quegli omosessuali che non accettano il loro orientamento sessuale e dunque non si riconoscono in una identità ed in uno stile di vita gay.
La NARTH ha perso il suo status di no profit nel 2012. La California ha messo fuori legge la pratica della terapia riparativa per i minori nel 2012, tagliando profondamente le operazioni con sede a Los Angeles della NARTH.
Dal 2014 l’Associazione ha mutato nome in Alliance for Therapeutic Choice and Scientific Integrity (Alleanza per la scelta terapeutica e l’integrità scientifica, abbreviata come ATCSI)
Socarides nel 1978 ipotizzò (Homosexuality: psychoanalytic therapy) che l’omosessualità maschile nascesse nei primi tre anni di vita del bambino, a causa di un rapporto distorto tra madre e figlio. In particolare, la fase più importante da tenere in considerazione, per questo autore, sarebbe stata quella della separazione-individuazione (vedi Mahler e Goslimer, 1955).
La potente simbiosi del bambino con la madre, che non riesce a canalizzarsi nella normale separazione e individuazione, cioè nel vedere se stesso e la madre come due persone separate e distinte, avrebbe portato il bambino ad avere un’identificazione femminile primaria con la madre.
Con queste premesse, Socarides propose un trattamento psicoanalitico, che sfruttasse le potenzialità del transfert, per affrontare e risolvere il conflitto principale, abbandonando la condizione di omosessualità nevrotica sviluppata, in favore dell’eterosessualità.
Fra i maggiori teorici della terapia di conversione vi fu anche Richard A. Cohen, fondatore della International Healing Foundation nel Maryland che perse popolarità a seguito di un’apparizione televisiva in cui dichiarò che lo scambio di effusioni e coccole tra uomini era un presunto rimedio compensativo e sostitutivo di una carenza di affetto paterna.
Un altro teorico, G. van den Aardweg, nel 1997 pubblicò Una strada per il domani: guida all'(auto)terapia dell’omosessualità Città Nuova Editrice, 2004, in cui ridimensionava il rapporto con i genitori e considerava ‘periodo critico’ quello dell’adolescenza e dei rapporti fra coetanei. Il sentirsi inferiore agli altri, l’ammirazione per individui idealizzati dello stesso sesso, avrebbe generato attrazione erotica. Il metodo terapeutico indicato è quello dell’autoterapia, ovvero un comportamento segnato da un atto di volontà, accompagnato da preghiera, autodisciplina e sincerità. Consigliava anche il metodo dell’ iper-drammatizzazione sviluppato da Arndt (1961), basato sull’esagerazione degli aspetti tragici e drammatici.
GA Reckers (1982- Growing Up Straight:What Families Should Know About Homosexuality, Moody Press Chicago) proponeva invece un approccio comportamentista dell’omosessualità, considerata un comportamento appreso che poteva essere prevenuto. Importante era l’educazione cristiana e il controllo delle amicizie del figlio da parte dei genitori. Come procedimento terapeutico veniva suggerito quello classico della desensibilizzazione sistematica agli stimoli omosessuali e un training nelle abilità sociali finalizzato al superamento della timidezza, che non permetterebbe al paziente di avvicendarsi nelle relazioni eterosessuali.
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A chi si rivolge, specificamente, la terapia riparativa?
Queste terapie si rivolgono a un gruppo specifico di persone, cioè quelle che hanno un orientamento sessuale e una identità di genere differente dall’eteronormatività (ovvero la convinzione che l’eterosessualità sia l’unico orientamento sessuale possibile in natura). Per questo motivo le persone che rifiutano le regole eteronormative vengono considerate devianti e bisognose di essere ricondotte alla “normalità”.
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Come viene condotta una terapia riparativa?
Vi sono almeno tre approcci per la “terapia riparativa”.
- PSICOTERAPIA. Si tratta di interventi basati sulla convinzione che la diversità di genere sia un prodotto di un’educazione o di una esperienza anomala. Vengono applicate la terapia psicodinamica, la comportamentale, le terapie cognitive e interpersonali. Un metodo ricorrente utilizzato è lo shock elettrico o il senso di nausea provocato mentre si è esposti a stimoli sessuali graditi dal soggetto (per causare un riflesso condizionato). Un altro trattamento prevede il “perdono del padre” e l’abbandono della fantasia per la quale le attenzioni paterne, negate in passato possano essere compensate, nel momento presente, dalla condizione di omosessualità. Vengono caldamente consigliati i rapporti di amicizia (non erotici) con altri uomini eterosessuali con comportamenti spiccatamente virili, al fine di trasformare l’attrazione omoerotica in sentimenti di amicizia e di interesse reciproco per persone del sesso opposto.
- APPROCCIO MEDICO. In questo approccio si ritiene che la diversità sessuale sia dovuta a una intrinseca disfunzione biologica. Si punta allora su approcci farmaceutici, come la terapia ormonale o steroidea.
- APPROCCIO BASATO SULLA FEDE. Interventi che agiscono partendo dal presupposto che ci sia qualcosa di intrinsecamente malvagio nei diversi orientamenti sessuali e identità di genere. Le vittime sono generalmente sottomesse ai principi di un consigliere spirituale e sottoposte a programmi per superare la loro “malattia”. Tali programmi possono includere insulti anti-gay oltre a percosse, incatenamenti e privazione di cibo. A volte questi elementi sono combinati con l’esorcismo o con rituali di preghiera volti a “liberare” la persona dall’omosessualità, che viene vista come una condizione peccaminosa o innaturale.
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Cosa ne pensa la comunità scientifica di tutto ciò?
La comunità scientifica è unanime nel rifiutare la terapia riparativa. Organizzazioni come l’American Psychological Association (APA), l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e l’Ordine degli Psicologi Italiano (CNOP) condannano questa pratica, definendola inefficace e dannosa. Numerosi studi evidenziano che la terapia riparativa non solo non riesce a modificare l’orientamento sessuale, ma può anche causare gravi conseguenze psicologiche. Per queste ragioni chi pratica la “terapia di conversione” viene considerato/a dalla comunità scientifica un/a professionista ignorante o incauto/a, che dà consigli inappropriati, seguendo le sue convinzioni personali e non la ricerca scientifica.
Perché la comunità scientifica ha preso questa posizione?
Perché dal punto di vista etico, la terapia riparativa si basa sull’assunto che l’omosessualità sia una condizione anormale o indesiderabile, perpetuando uno stigma ritenuto ingiustificato. Inoltre, spesso i soggetti coinvolti in queste terapie sono giovani o adolescenti spinti da familiari o comunità religiose, senza un consenso pienamente informato.
Quale è la situazione italiana?
Nel 2010 in Italia è stato pubblicato un documento sottoscritto da psicologi, psichiatri, psicoterapeuti, psicoanalisti, studiosi e ricercatori nel campo della salute mentale e della formazione per condannare ogni tentativo di patologizzare l’omosessualità, affermando che “qualunque trattamento mirato a indurre il/la paziente a modificare il proprio orientamento sessuale si pone al di fuori dello spirito etico e scientifico”. Il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP) si è espresso più volte sulla dannosità delle terapie riparative e contro la concezione dell’omosessualità come malattia.
Sul piano legislativo, tuttavia, non vi è ancora una legge che esplicitamente vieti la terapia di conversione. Nel 2016 il senatore Lo Giudice aveva avanzato una proposta per rendere la terapia di conversione illegale, ma quest’ultima non è mai arrivata a essere discussa. Secondo il disegno di legge, chiunque avesse praticato questo tipo di percorso terapeutico poteva essere condannato a due anni di reclusione e multato dai 10 ai 50mila euro.
Perché si è ritenuto che la terapia riparativa non funziona?
Moltissimi studi hanno ormai convinto la maggior parte della comunità scientifica che non vi è alcuna evidenza di successo terapeutico nel cercare di “curare l’omosessualità”.
In primis la terapia deve essere scelta con consapevolezza, ma come si fa a capire se un soggetto decide di sottoporsi ad una terapia riparativa perché ne è veramente convinto, o se lo fa perché spinto dal suo ambiente, dalla sua famiglia, che magari considera la sua omosessualità come un grave peccato e solo per questo motivo vorrebbe sentirsi “normalizzato” ?
Che dire poi dei risultati terapeutici? Scegliere la castità o cercarsi un partner eterosessuale significa essere ‘guariti’? Quanti omosessuali compiono già, senza alcuna terapia, questo genere di scelte, per difendersi dal pregiudizio sociale di una società omofoba? Si pensi a soggetti gay che si sposano con una partner donna per mettere a tacere i pettegolezzi… E poi, chi è bisex deve essere considerato “in parte guarito” o come un fallimento della terapia? C’è poi il problema del follow up: quanto durano questi comportamenti eterosessuali suggeriti dalla terapia riparativa? Dopo quanto tempo possono tornare le tentazioni omosessuali?
Spingere la persona a controllare il suo comportamento, affinché appaia “normale” non è considerato terapeutico, dal momento che non conduce a una condizione di benessere psicosessuale, ed anzi può essere molto pericoloso, causando una perdita di autostima, ansia, sindrome depressiva, isolamento sociale, difficoltà nell’intimità, odio per se stessi, vergogna e senso di colpa, disfunzioni sessuali, ideazione suicidaria, sintomi di disturbo post-traumatico da stress.
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Quali studi sono stati considerati più rilevanti su questo tema?
Lo studio più significativo in questo campo è quello del 2001, condotto dallo psichiatra americano Robert Spitzer presso la prestigiosa Columbia University di New York. Il Prof. Spitzer non era un ricercatore qualsiasi: egli aveva contribuito, nel 1973, a togliere l’omosessualità dalla lista delle malattie psichiatriche elencate nel DSM (manuale pubblicato dall’American Psychiatric Association) e pertanto le sue conclusioni erano considerate rilevanti.
Nel 2001, Spitzer pubblicò uno studio presentato alla conferenza annuale dell’American Psychiatric Association. Lo studio si basava su interviste a 200 persone che affermavano di aver cambiato il proprio orientamento sessuale da omosessuale a eterosessuale attraverso terapie di conversione. Spitzer sostenne che, in alcuni casi, individui motivati potevano effettivamente modificare il proprio orientamento sessuale.
Lo studio si basava su interviste telefoniche in cui i partecipanti fornivano un’autovalutazione dei cambiamenti nel loro orientamento sessuale. Questo approccio metodologico ha suscitato numerose critiche:
- I soggetti erano stati reclutati attraverso organizzazioni religiose e terapeutiche che promuovevano la terapia riparativa, introducendo un evidente bias di selezione.
- L’autovalutazione dei partecipanti era priva di misurazioni oggettive, rendendo difficile distinguere tra un reale cambiamento nell’orientamento sessuale e un adattamento comportamentale o un autoinganno.
- Lo studio non prevedeva un monitoraggio a lungo termine, lasciando dubbi sulla stabilità dei cambiamenti riportati.
Nel 2012, Robert Spitzer ritrattò pubblicamente le conclusioni del suo studio, ammettendo che i dati raccolti non erano sufficienti per affermare che l’orientamento sessuale potesse essere modificato. Spitzer ha detto in un’intervista ad American Prospect: “Con il senno di poi devo ammettere che le critiche erano in gran parte corrette. I risultati dello studio possono essere ritenuti validi per i soggetti che si sono sottoposti a quella terapia, ma non possono essere generalizzati.”
La ritrattazione di Spitzer ha avuto un impatto significativo nel delegittimare ulteriormente la terapia riparativa. La sua onestà nel riconoscere l’errore ha anche rafforzato la credibilità della comunità scientifica nel rifiutare approcci terapeutici non etici e basati su pregiudizi.
Con questo ripudio, Spitzer ha praticamente tolto l’ultima gamba allo sgabello già traballante nel quale i proponenti delle terapie “ex-gay” basavano i successi delle loro terapie.
Perché alcune persone, nel mondo scientifico, sono favorevoli alla terapia riparativa?
Perché ritengono che esista una potente ‘lobby gay’ la quale stia cercando di ‘normalizzare’ ciò che invece è per loro ‘patologico’. La stessa denominazione, ‘terapia riparativa dell’omosessualità’ fa capire il loro punto di vista.
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Dr. Giuliana Proietti
Psicoterapeuta Sessuologa
TERAPIE INDIVIDUALI E DI COPPIA
ONLINE
La Dottoressa Giuliana Proietti, Psicoterapeuta Sessuologa di Ancona, ha una vasta esperienza pluriennale nel trattamento di singoli e coppie. Lavora prevalentemente online.
In presenza riceve a Ancona Fabriano Civitanova Marche e Terni.
- Delegata del Centro Italiano di Sessuologia per la Regione Umbria
- Membro del Comitato Scientifico della Federazione Italiana di Sessuologia.
Oltre al lavoro clinico, ha dedicato la sua carriera professionale alla divulgazione del sapere psicologico e sessuologico nei diversi siti che cura online, nei libri pubblicati, e nelle iniziative pubbliche che organizza e a cui partecipa.
Per appuntamenti:
347 0375949 (anche whatsapp)
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