I volti della Felicità
E’ così difficile raggiungere la felicità che più ci affanniamo a cercarla, più ce ne allontaniamo”.
(L. A. Seneca, Dialoghi)
“Gli uomini sarebbero felici se non avessero cercato e non cercassero di esserlo”
(G. Leopardi, Zibaldone)
“Felicità” è di quelle parole che hanno un significato tutt’altro che univoco, in quanto non solo è esperienza personalissima, ma anche a livello teorico viene intesa in modi molto diversi, quando non addirittura contraddittori. Non potendo tenere presente la diversificata specificità delle esperienze di felicità che gli uomini fanno (o dicono di fare) ovvero che lo stessa persona fa (o dice di fare) in momenti diversi, riteniamo opportuno operare almeno una chiarificazione del concetto di felicità che, senza giungere a una reductio ad unum, permetta di evitare una “babele semantica”.
Siamo infatti convinti che sia necessario connotare l’idea di felicità non in termini “univoci” né “equivoci”, bensì “multivoci”, mostrando che si può parlare della felicità in più modi e legittimamente (1). A ciò consegue che si effettui una serie di distinzioni e puntualizzazioni, attraverso cui rendere evidenti tanto i molteplici “volti” della felicità, quanto le “caricature” che se ne fanno o le “maschere” che le si mettono, con la consapevolezza che parlare di “volti”, “caricature” e “maschere” è pur sempre un atto valutativo, che ha, a monte, riferimenti (impliciti, se non espliciti) a concezioni dell’uomo e della vita: il che rende avvertiti sulla complessità della questione, e a non cedere alla tentazione di considerarla in termini troppo settoriali e procedurali.
Relazione La sessualità femminile fra sapere e potere
Convegno Diventare Donne
18 Marzo 2023, Castelferretti Ancona
ANCONA FABRIANO TERNI CIVITANOVA MARCHE E ONLINE
1. IN PREMESSA UNA CHIAVE DI LETTURA
1.1. Volti della felicità
Prima di accennare alle molteplici concezioni e impostazioni della felicità, vorremmo suggerire una distinzione preliminare, sostenendo che la felicità va configurata in tre modi, che possiamo denominare: fortuna, fioritura e fiducia in riferimento a tre connotazioni, che chiamerei della felicità-sentimento, della felicità-comportamento e della felicità-atteggiamento. Vediamo più da vicino ciascuna di queste tre accezioni di felicità che, se correttamente intese, ne costituiscono i “volti”, diversamente si tratta di “caricature” e di “maschere”.
Parliamo anzitutto della felicità in senso stretto, ossia in termini di situazione emozionale, per segnalare che la felicità può presentarsi come fortuna o grazia, cioè come momenti fortunati o momenti di grazia, per dire momenti che s’iscrivono nel kairos non semplicemente nel cronos. Ci sembra che l’espressione momenti di fortuna o di grazia sia efficace, perché fa comprendere che la felicità in questo caso non è qualcosa di programmabile, è piuttosto un dono, qualcosa di casuale o gratuito, che non dipende direttamente da noi e che non riusciamo a spiegare causalmente: viviamo la felicità senza riuscire a motivarla, e le motivazioni che dovessimo individuare a posteriori non servirebbero a stabilire a priori le condizioni per ripeterne l’esperienza.
Questa concezione “casuale” della felicità è quella che è sottesa alla stessa etimologia delle parole eudaimonia (in greco: eu daimonia) e bonheure (in francese: bonne heure), è l’idea della felicità come “fortuna” o “buona sorte” e non necessariamente deve trattarsi di una fortuna conseguente a concreti risultati ottenuti: può trattarsi di momenti in cui ci sentiamo fortunati senza che ci siano motivi appariscenti o segni esteriori per esserlo. La felicità -intesa come sentimento situazionale, legato o meno al soddisfacimento di desideri, dà in ogni caso il senso della pienezza, per quanto temporanea e fugace- prima o poi capita forse a tutti, a pochi però è riservata in termini eclatanti, in ogni caso dura poco: si tratta pur sempre di momenti: momenti di fortuna o di grazia, appunto.
Oltre a questa accezione della felicità, c’è un altro significato più ampio di felicità, secondo cui la felicità va intesa come stile di vita, che consiste nel condurre un tipo di vita che predispone, seppure in modo non necessario, alla felicità come “fioritura” di sé: significato, questo, che si collega etimologicamente alla nozione di felicitas come prosperità, possesso di beni e/o del bene, e che possiamo tradurre come vocazione dell’uomo alla piena attuazione di sé, che peraltro non si realizza mai completamente.
Si tratta allora di una vita come ricerca, anche se la ricerca è diversamente indirizzata: al piacere o all’utile o alla bontà o alla giustizia o alla contemplazione o al dovere o all’altruismo o alla compassione, ecc. e la felicità si fa consistere nel cercare e nel raggiungere qualcuna di queste diverse finalità, cui si perviene esercitando la ragione o il sentimento, e quindi comportano un impegno personale; la felicità allora è un compito, cui dedicarsi seriamente e serenamente; è frutto di virtù o virtù essa stessa; in ogni caso, si conquista a caro prezzo; ecco perché bisogna diffidare della felicità a buon mercato. La soddisfazione che si accompagna a questo tipo di felicità è soddisfazione per i valori messi in campo, e vissuti in modo abituale, come comportamento identitario di ciascuno, che opera all’insegna della saggezza (o prudenza o ragionevolezza, che dir si voglia).
A questi due significati di felicità c’è da aggiungerne un terzo che dilata ulteriormente l’idea di felicità, e che di solito viene trascurato, mentre pensiamo che andrebbe ben tenuto presente, ossia la convinzione che identifica la felicità con il nostro stato esistenziale, cioè di generati, di venuti alla vita, di viventi grati di vivere; vogliamo con ciò dire che accettare e apprezzare di vivere è già un collocarsi nell’orizzonte della felicità: che poi si ricerchino ulteriori motivi di felicità, non deve farci dimenticare questa precondizione, tant’è che la ricerca di questi motivi non avrebbe più senso se fosse in pericolo la nostra vita, se fosse a rischio la nostra esistenza.
Potremmo pertanto dire che la felicità in questo terzo significato è un atteggiamento complessivo nei confronti della vita, un atteggiamento di essenziale positività, che si traduce in un senso di contentezza diffuso, di fiducia più o meno consapevole; essa caratterizza chi vive e ha il senso della vita, mentre l’infelicità (come ha mostrato A Torno ne L’infelicità. Storia di una passione) consiste nel perdere il senso della vita, nel non avvertire il bisogno di futuro che alimenta la vita in quanto vita: sta, dunque, nell’apertura al futuro il senso di una felicità come gioia di vivere: sia a livello di vitalità sia a livello di vitalismo.
1.2. Caricature e maschere della felicità
Ebbene, questi tre “volti” della felicità possono essere deformati da quelle che chiamerei “caricature” e “maschere” della felicità.
Si hanno caricature della felicità, quando si opera una qualche forma di “riduzionismo” nel senso che si concepisce la felicità secondo un esclusivo significato, per cui (con riferimento alle tre accezioni indicate) si fa consistere la felicità solo nell’essere fortunati ovvero solo nell’essere ricchi ovvero solo nell’essere al mondo. In questa maniera si perde la complessità della felicità e se ne misura il possesso in termini parziali.
Qualcosa di analogo accade anche con le maschere della felicità, che si hanno quando si enfatizzano i tre significati della felicità, identificandoli con il successo, come brama di gratificazione, con i soldi, come accumulo di ricchezza, e con il sesso, come uso del corpo: accade così che quelli che possono essere fattori di felicità finiscano per tradirla, misconoscendo il primato della persona per cui successo, soldi e sesso invece di essere commisurati alla persona, ne diventano la misura, e quindi, a causa di questo processo di radicalizzazione, avviene un occultamento del senso complesso e complessivo della felicità; occorre pertanto smascherare queste facili quanto indebite identificazioni.
Si potrebbe allora concludere su questo punto affermando che la ricerca spasmodica della felicità (quella che abbiamo identificato con le sue caricature e le sue maschere) finisce per creare infelicità, nel senso che produce ansia, stress, fobie e depressione, per cui pare legittimo affermare che, prima ancora di cercare la felicità, è importante evitare ciò che può portare alla infelicità: ciò induce a sostenere (ed è un paradosso che dice della complessità della felicità) che il modo migliore di trovare la felicità è quella di non cercarla ovvero di riconoscerla anche quando non si manifesta in modo eclatante: essere fiduciosi nei confronti della vita, essere virtuosi nella condotta morale, essere grati nelle situazioni positive, tutto questo (i tre volti della felicità) significa essere felici, e ce ne accorgiamo proprio quando, frastornati da altro, trascuriamo di esercitare questa triplice capacità, generando o acutizzando condizioni di sofferenza.
Da quanto abbiamo detto, dovrebbe risultare l’apparentamento della felicità con la libertà (di questa ci rendiamo conto quando l’abbiamo perduta o la stiamo per perdere) e con l’amore (non si può amare perché abbiamo deciso di amare, e, quando amiamo, occorre aver cura di proteggere tale amore, evitando di metterlo a rischio): insomma la felicità, come la libertà e come l’amore, sono condizioni che non basta teorizzare ma bisogna soprattutto vivere.
2. DUE MODELLI DI FELICITA’
2.1. Felicità naturale e soprannaturale
Ma a questo punto possiamo articolare una riflessione sulla felicità avanzando delle distinzioni che ci aiutino in tale intento. Preliminare è quella tra felicità in senso “naturale” e felicità in senso “soprannaturale” corrispondono rispettivamente a quelle che possiamo chiamare “vita buona” e “vita beata”; nel primo significato la felicità si caratterizza come “realizzazione” della persona (è la vita riuscita); nel secondo caso la felicità si caratterizza come “salvezza” della persona (è la vita eterna). Facendo riferimento al pensiero greco e a quello cristiano, possiamo dire che nel primo significato la felicità è conseguente all’esercizio delle virtù naturali, e nel secondo caso al dono delle virtù teologali, per cui si configurano due tipi di felicità: in senso “immanente” e in senso “trascendente”, in senso “terreno” e in senso “ultraterreno”.
Un problema che allora si pone riguarda il rapporto che viene posto tra questi due tipi di felicità; può essere infatti di alternatività ovvero di complementarietà. Nel primo caso, il contrasto tra le due felicità porta ad affermarne una che elimina l’altra: così si riconosce solo una felicità: o quella terrena, per cui quella ultraterrena sarebbe solo alienante; o quella ultraterrena, per cui quella terrena è solo illusoria. Nel secondo caso, invece, tra felicità terrena e ultraterrena non c’è un rapporto alternativo o escludente (aut aut), bensì integrativo o interattivo (et et), sia nel senso che la felicità religiosa non elimina la felicità terrena ma la perfeziona, sia nel senso che la felicità religiosa comincia già da questa vita anche se giunge a compimento nella vita eterna, sia nel senso che la felicità religiosa dà nuovo significato anche alla felicità mondana.
Occorre, tuttavia, aggiungere che ciascuna di queste concezioni della felicità -come vita buona o riuscita e come vita beata o eterna- si diversifica al suo interno a livello di impostazioni e di applicazioni. Infatti, la felicità “religiosa” si specifica diversamente nelle diverse religioni, così come la felicità “mondana” assume diverse configurazioni a livello teoretico e pratico.
Qui dobbiamo sorvolare sul paradigma religioso della felicità, perché oggetto di altre relazioni in questo convegno (2); tralasciamo, dunque, la felicità religiosa, e ci soffermiamo sulla felicità in senso naturale o mondano o terrestre che dir si voglia.
2.2. Concezioni della felicità terrena
La felicità terrena è connotata diversamente dalle diverse impostazioni filosofiche: come ricerca del piacere, cioè soddisfacimento di bisogni naturali necessari, di bisogni naturali non necessari, di bisogni non naturali (edonismo: da Epicuro a Valla, a Gassendi); come perseguimento dell’utile, cioè massimizzazione del piacere e minimizzazione del dolore (utilitarismo: da Bentham a Stuart Mill)); come effetto di sentimenti a caratterizzazione altruistica o simpatetica (sentimentalismo: da Rousseau a Comte, da Schopenhauer a Bergson, a Scheler) ); come esercizio delle virtù sia etiche sia dianoetiche (eudemonismo: da Aristotele a Crisippo; razionalismo: da Cartesio a Spinoza, a Leibniz); come adempimento del dovere in modo assoluto (dentologismo: Kant) (3).
In ogni caso, a monte delle diverse teorie etiche di ieri (4) e di oggi (5), c’è a ben vedere la questione antropologica con la sua diversificazione in tema di scopo esistenziale (primato del piacere o dell’altruismo, del bene o della giustizia, della virtù o del dovere) che porta a una diversa idea della felicità.
3. FELICITA’ E PERSONA
3.1. Diritto alla felicità
Forse nessun aspetto quanto la felicità dà la misura della complessità della persona umana, perché la felicità per un verso coinvolge tutta la persona e per altro verso ne rivela la limitatezza, per cui rende evidente quella eccedenza che è peculiare dell’uomo, per cui si può dire che l’uomo fa eccezione rispetto alla natura: così in una concezione all’insegna dell’”umanesimo”; diversamente nel cosiddetto “postumanesimo” o “transumanesimo”, quando la concezione si ispira ad un programma di “naturalizzazione” della persona.
Prescindendo da tale questione (che pure è di fondamentale importanza) ci limitiamo in questa sede a rilevare che, in ogni caso, la felicità è aspirazione di tutti, ma nessuno la raggiunge completamente e una volta per sempre; la felicità è aspirazione che si rinnova continuamente e che, quando si raggiunge, si esprime in modi diversi in ogni uomo e nello stesso uomo.
Proprio il richiamo alla persona porta ad accennare ad una questione che, nel nostro tempo si è resa più acuta, quella del cosiddetto diritto alla felicita (9).
Su come intendere tale diritto, condividiamo la posizione di Salvatore Veca, il quale suggerisce “di prendere sul serio una differenza (…) della massima importanza”, quella “fra il sostenere che noi abbiamo diritto alla felicità e il sostenere che noi abbiamo diritto al perseguimento della felicità. Com’è noto, è il secondo diritto non il primo, che è sancito dall’antica promessa costituzionale americana (p. 62). Dunque, si può affermare che quello della felicità è un diritto, ma non nel senso che la felicità possa essere assicurata, ma nel senso che se ne possono assicurare o favorire le condizioni che ne permettano la conquista, pur consapevoli che questa rimane sempre affidata alla libertà di ciascuno non meno che alla aleatorietà della vita.
3.2. Felicità e infinito
Occorre, peraltro, aggiungere che di fronte a tale situazione si pone il problema della relazione con l’infinito o con l’assoluto o con il totale che dir si voglia. C’è allora da chiedersi: forse che, per conseguire la felicità, ci si deve liberare da questa aspirazione? Ovvero proprio su di essa bisogna puntare per non disperdersi e perdersi in pseudofelicità?
Nel primo caso, quella dell’infinito è un’istanza metafisica e religiosa da superare, in modo da mettersi in condizione di affrontare la vita per quello che è, e di aspirare alla felicità conseguentemente; in tale ottica, la felicità consiste nello stare al mondo, nell’essere all’altezza della condizione mortale dell’uomo: è, questa, l’indicazione che (per esempio) proviene dal “neopaganesimo” (per esempio, del già citato Salvatore Natoli).
Nel secondo caso, quella dell’infinito è tutt’alto che una “malattia” da cui guarire, è invece una “attitudine” metafisica e religiosa da coltivare che, nello stesso tempo, testimonia la condizione di finitezza propria dell’uomo e la sua irriducibilità a tale finitezza: il bisogno di infinito chiarisce l’eccedenza dell’uomo rispetto a ogni visione meramente naturalistica; ne consegue una specifica concezione della felicità sia sul versante terreno, identificata con le cosiddette “beatitudini” (il Discorso della montagna di Gesù), sia sul versante escatologico, identificata con la “beatitudine” conseguente alla visione di Dio, cioè alla partecipazione alla vita eterna, divina.
Non rientra in questa relazione, la trattazione di questo tipo di felicità; tuttavia torna utile almeno tenerla presente per due ordini di ragioni. In primo luogo, perché alla visione beatifica di Dio si perviene attraverso la via delle beatitudini (cui ha dedicato il libro omonimo Enzo Bianchi) che, in tale prospettiva è da vedere nella sua dimensione paradossale (su cui ha insistito Italo Mancini tra l’altro in Tre follie) come completamento della vita buona, nel senso che la porta a compimento, la perfeziona, facendola passare dall’esistere con all’esistere per.
In secondo luogo, perché la visione beatifica di Dio costituisce un’idea di felicità assoluta, tale da porsi come critica degli assoluti terrestri, critica che non annulla i progetti e i modelli di felicità terrena, ma li relativizza.
Pertanto -ed è il paradosso della felicità- l’aspirazione alla totalità si accompagna alla attuazione necessariamente parziale. In tal modo, il desiderio è sottratto a ogni sua riduzione a bisogno, ed è conservato nella sua incessante apertura, per cui la felicità terrena non è una formula più o meno generica o astratta, bensì un impegno di ciascuno da rinnovare continuamente. E si tratta di un impegno da esercitare nei diversi campi; infatti, può produrre felicità tanto la fede religiosa quanto la ricerca scientifica, tanto l’agire buono quanto la produzione bella.
3.3. Felicità e società
Per comprendere ulteriormente che cosa la felicità non è e che cosa è, può tornare utile accennare a quelli che possono essere considerati fattori favorenti o sfavorenti della felicità, cominciando col confrontare la felicità con stati simili ma non uguali: si pensi a termini come allegria, gioia, letizia, che possono accompagnarsi alla felicità, ma con essa non vanno identificati. Forse un altro termine potrebbe meglio essere avvicinato a felicità, quello di serenità, che in realtà può essere piuttosto considerata una condizione per il raggiungimento della felicità, in quanto favorisce l’accettazione di sé e degli altri, la capacità di affrontare le situazioni, conservandone il padroneggiamento, la capacità di esercitare nei confronti degli eventi quella partecipazione distaccata, frutto di equilibrio e di ironia. Ebbene, tutti questi atteggiamenti possono considerarsi fattori favorenti (anche se non determinanti) della felicità, e vanno quindi incentivati.
Invece, occorre superare un’altra serie di atteggiamenti, che possiamo sintetizzare nelle diverse forme di fobia, di stress e soprattutto di depressione, tutti fattori sfavorenti della felicità, e che (come abbiamo accennato) si accompagnano a non poche delle odierne concezioni della politica, dell’economia e dell’ecologia.
Per questo mi pare importante che un’associazione scientifica impegnata a combattere fobie e timidezze (tale è l’AIRT, Associazione per la ricerca sulla timidezza e le fobie sociali) s’impegni in una riflessione intorno alla felicità, il cui perseguimento è possibile proprio a partire dal superamento delle tante forme di ansia e di depressione che si manifestano in tanti campi, non ultimo quello della sessualità.
Sul tema può essere ricordato un saggio di Bertrand Russell intitolato La conquista della felicità, in cui il filosofo inglese nella prima parte indica le cause più tipiche di infelicità della società moderna, vale a dire: competizione, noia, eccitamento, fatica, invidia, sensi di colpa, manie di persecuzione, paure), e ritiene che nascano da impulsi profondi ma di solito controllabili. e l’odio che scatena alcune di esse nasce nell’uomo forse dalla sensazione inconscia di “aver perduto il senso della vita (…) che forse altri, ma non noi, si sono assicurati le cose belle che la natura offre per la gioia dell’uomo” (p.103). Anche se nel mondo moderno sembra che l’uomo non abbia nessuna possibilità di essere felice, Russell nella seconda parte del libro contraddice quest’ipotesi, in quanto sostiene che la conquista della felicità è possibile, ed è possibile nelle diverse forme di felicità: semplice, fantasiosa, animale e spirituale (p.157).
Al riguardo vogliamo richiamare l’attenzione su un’idea tipicamente russelliana, secondo cui la felicità dipende dalla varietà degli interessi individuali: più è ampia, e più orienta positivamente le relazioni; in particolare Russell ritiene che gli affetti possano contribuire alla gioia di vivere, se si riesce ad espanderli verso gli altri in maniera generosa; dunque, a condizione che affetti e interessi siano rivolti all’esterno, e non all’interno, l’uomo ha la possibilità di essere felice e di sentirsi cittadino dell’universo. In breve, la felicità è effetto di una profonda unione istintiva con la corrente della vita (p.271), che si oppone allo stato di disintegrazione, o mancanza di integrazione, che è invece causato dallo stato di infelicità.
Una intervista sulla violenza domestica
ANCONA FABRIANO TERNI CIVITANOVA MARCHE E ONLINE
4. APPROCCI ALLA FELICITA’
4.1. Felicità tra riduzione e istruzione
A questo punto occorre avvertire che oggi si devono fare i conti con due specifici fatti, richiamati da Umberto Galimberti (pp. 71 e 74) e che possiamo indicare come una riduzione (scientifica) e una pretesa (didattica).
Per un verso, le acquisizioni delle neuroscienze, secondo le quali (come ha ricordato Christian Boiron) la felicità risulta dalla buona armonia dei tre cervelli: quello rettiliano, collocato nell’area ipotalamica, che presiede le funzioni vitali; quello limbico, che presiede gli automatismi che regolano le azioni che compiamo senza pensare; e infine quello corticale con cui facciamo operazioni critiche e creative. Per altro verso, la possibilità di insegnare la felicità, tanto che nell’Università di Harward e in quella di Wellington sono stati introdotti degli insegnamenti che hanno per oggetto la felicità e le modalità per conseguirla.
Nei confronti dell’uno e dell’altro fatto Galimberti ha avanzato delle riserve condivisibili. Nei confronti di Boiron, Galimberti evidenzia come il metodo della riduzione tipico delle scienze esatte rischi il riduttivismo, banalizzando la questione (p. 71). E nei confronti delle esperienze statunitensi, Galimberti con decisione afferma “escludiamo che la felicità possa essere insegnata come si insegnano i saperi e le tecniche (…): non possiamo insegnare la felicità, ma solo viverla”. Detto questo, Galimberti sostiene che “si possono insegnare le condizioni per il suo accadimento” e a tal fine un contributo può venire dalla cosiddetta “pratica filosofica”, che aiuta ad avere “cura dell’anima e governo di sé” (p. 74).
Le menzionate riserve sono da tenere in considerazione, se si vuole rispettare la complessità della felicità, cui peraltro aveva già richiamato, da par suo, Salvatore Natoli. Questi due pensatori convergono nel collegare la felicità alla “cura di sé” e al “governo di sé”, riallacciandosi in tal modo al pensiero greco, per cui configurano la felicità (sintetizza Galimberti) non “come soddisfazione del desiderio” né “come premio alla virtù”, ma “virtù essa stessa”, per cui “la vita buona (e non la vita eterna) è il fine della vita”. Diversa da tale impostazione, che Natoli definisce di neopaganesimo, è la visione cristiana, secondo la quale invece la felicità si lega alle “beatitudini” evangeliche e alla “beatitudine” divina, che non è esclusiva dell’altro mondo, ma (secondo san Giovanni) si può vivere fin da questa vita, se condotta nella sequela di Cristo, anche se tale beatitudine troverà il suo compimento solo nella vita eterna, per cui se ne può parlare in termini di “già” e “non ancora”.
4.2. Complessità della felicità
Aiutano a capire meglio la complessità che caratterizza la felicità alcune distinzioni.
Anzitutto, c’è da operare la distinzione tra felicità interiore e felicità esteriore: se la felicità è ridotta alla sua dimensione esteriore, finisce per evocare ansia e insoddisfazione, mentre la felicità va ricercata non negli oggetti, bensì nel soggetto stesso, per la felicità esteriore deve essere ricondotta a quella interiore
Si può inoltre affermare che la felicità è, insieme, qualcosa di individuale e di relazionale, in quanto la ricerca della felicità non viene effettuata dall’individuo isolato dal contesto, chiuso in una qualche forma di narcisismo, ma secondo modalità su cui le relazioni interpersonali e comunitarie influiscono direttamente o indirettamente.
Un’altra distinzione da tenere presente, porta a chiarire che la felicità non va concepita come un possesso, che si raggiunge una volta per sempre, bensì come una ricerca, che si rinnova continuamente e continuamente è a rischio.
Da aggiungere che la felicità non sta solo nella conquista di uno stato (seppure precario) ma nello stesso perseguimento di tale stato: la ricerca della felicità è già felicità. Pertanto la felicità appare consistere non solo nel soddisfacimento ma anche nella sua attesa; anzi, secondo alcuni (un nome solo: Giacomo Leopardi), più nella attesa che nel soddisfacimento.
5. AMBITI DELLA FELICITA’
5.1. Felicità tra pubblico e privato
Questa felicità è diversamente concepita anche in riferimento agli ambiti del vissuto in cui viene ricercata: può essere il campo della morale individuale ovvero quello dell’etica pubblica; la felicità può essere allora connotata in termini complementari e integrativi ovvero in termini oppositivi e alternativi.
Non solo, negli specifici campi della politica, dell’economia, dell’ecologia, ecc. la felicità può essere vista come frutto del primato della tecnica ovvero del primato dell’etica. In particolare, si possono segnalare alcune linee di tendenza contrastanti: la felicità come “bene-essere” integrale, e la felicità come “benessere” materiale, oppure come equilibrio personale e ambientale e come considerazione sociale e gratificazione, oppure come senso di appagamento e come raggiungimento del successo, oppure come rispetto della vita o come soddisfacimento del desiderio.
Semplificando si potrebbe individuare sotto traccia la contrapposizione tra due tipi di felicità: la felicità dell’avere (cioè avere potere, profitto, piacere, ecc.) e la felicità dell’essere (cioè, essere bravi, buoni, belli, ecc.). Ma vediamo più da vicino alcuni ambiti particolarmente significativi, cioè quelli politico, economico e ecologico.
5.2. Ambiti sociali
Nel campo della politica, la felicità costituisce un obiettivo irrinunciabile, almeno nel contesto della democrazia, che addirittura giunge a parlare di vero e proprio diritto alla felicità, se non nel senso di diritto a possedere la felicità, certo nel senso di diritto di ricercare la felicità: in questo significato è democratica la società che assicura le condizioni che permettono il perseguimento della felicità. Ne consegue che tale società deve essere “giusta” (parafrasando Franklin, potremmo dire: alla giustizia ci pensi la società che alla felicità ci pensano gli individui) o almeno “equa”, cioè una società decente; diversamente è una società indecente, dove non c’è spazio politicamente per la felicità.
E’ importante richiamare il nesso felicità-democrazia, perché permette di evidenziare un mutamento di paradigma dell’idea di felicità: da quella degli antichi, secondo cui la felicità è frutto di un’arte, riservata a pochi e in modi irripetibili, a quella dei moderni, secondo cui la felicità è frutto di scienza e quindi estensibile a tutti e in modo ripetibile. Quanto ci sia di utopistico o di utopico (ma proprio le “utopie” sono sempre delle “eutopie”) in tale idea non interessa in questa sede: conta il fatto che la felicità abbia così guadagnato uno spazio nell’esercizio del diritto di cittadinanza. (ed è -sia detto fra parentesi- quanto ha messo in luce Michel Onfray nella sua Controstoria della filosofia trattando di Politiche della felicità) (6).
Nel campo dell’economia potrebbe sembrare che non ci sia posto per la felicità dato che (secondo la definizione a metà Ottocento di Thomas Carlyle) quella economica è una “scienze triste”, e tale effettivamente può essere considerata una scienza che riduce le relazioni tra persone ai loro rapporti astratti di scambio. E invece, si sta verificando un’inversione di tendenza, perché anche in economia si pone il problema di evitare ogni riduzionismo sia come economicismo, sia come efficientismo.
Infatti, per il primo aspetto, si riconosce oggi che le leggi della crescita illimitata non sono da considerare come “le” leggi, ma come “delle” leggi, che caratterizzano un certo sistema, quello capitalistico, che, per quanto abbia sempre rivelato un potere autocorrettivo, sembra essere arrivato al traguardo, giacché la crescita illimitata non è ulteriormente sostenibile, tanto che stiamo assistendo a una vera e propria rivoluzione, con un radicale cambiamento di paradigma identificato oggi con la cosiddetta “decrescita” che, per sottolineare la positività, viene etichettata come “decrescita felice”, “frugalità felice”, per dire una “decrescita” sobria, sostenibile. Così avviene che dal punto di vista epistemologico il concetto di felicità entra nel lessico dell’economia. E allora lo stesso misuratore del benessere, il PIL, viene messo in discussione tanto che, con una battuta, è stato detto: “depiliamoci”. Il Prodotto Interno Lordo (PIL) andrebbe sostituito (come è stato suggerito) con la Felicità Interna Lorda (FIL) o con il Benessere Interno Lordo (BIL) che tiene conto, per misurare il benessere, non solo di criteri quantitativi, ma anche di quelli qualitativi.
In questa logica la felicità non si parametra alla ricchezza, tanto più che si deve tenere conto del paradosso secondo cui l’aumento della ricchezza non comporta un aumento di felicità. Certo, la battuta popolare “se la ricchezza non rende felici, figuriamoci la miseria!” ha un suo valore, ma quello che qui si vuole evidenziare è che la ricchezza individuale per le persone e il PIL per le nazioni non risolvono il problema della felicità, anzi mostrano sempre più chiaramente la necessità di fuoriuscire da una impostazione ideologica e idolatrica dell’economia, che rischia di compromettere la stessa democrazia, in quanto trasforma i governanti in “negozianti” e i governati in “clienti”, per cui si va verso la postdemocrazia (Crouch).
A parte tutto questo, c’è anche il secondo aspetto da tenere presente, quello dell’efficientismo o aziendalismo, che ha prodotto e va producendo alienazione e manipolazione: stiamo infatti assistendo a quella che (per dirla con Michela Marzano) è stata definita l’estensione del dominio della manipolazione dall’azienda alla vita privata: un modo di esportare il paradigma aziendalistico oltre i confini dell’azienda, e con grave danno, aggiungerei, per il fatto che questo tipo di impostazione, ammesso e non concesso che per la stessa azienda sia valido, non è certamente da ripetere in altri contesti, non foss’altro che per il fatto d’essere generatore di ansia e di stress e per il fatto di contrabbandare il successo come misura di tutte le cose: questo, incentivo alla pseudo- felicità, e, quelli, ostacoli alla autentica felicità.
Nel campo della ecologia, si potrebbe dire che la felicità è letteralmente di casa, in quanto alcune categorie e alcune finalità di questo settore sono perfettamente in linea con l’idea stessa di felicità, quale stile di vita, almeno quando la ecologia è intesa come espressione dei rapporti di benessere della persona con sé, con gli altri, con la natura (in una logica di ecologia moderata e non estrema). Una visione olistica, fondata sull’equilibro in termini sistemici costituisce l’orizzonte dell’ecologia che può certamente favorire condizioni per ricercare la felicità, se non addirittura per permetterne il possesso (8).
Dr. Giuliana Proietti - Videopresentazione
5.3. Ambiti relazionali
Dal punto di vista psicologico e sociale (cui qui accenneremo solamente, perché oggetto di specifiche relazioni) possono essere considerati luoghi privilegiati della felicità alcune istituzioni, a cominciare dalla famiglia, per la cui fisiologia è essenziale il concetto di felicità in riferimento alle persone che la costituiscono e alle loro relazioni.
Si parla così di felicità coniugale, che caratterizza il matrimonio “riuscito”, e si parla di “genitori felici” come presupposto per “figli felici”. Che la famiglia, quando ovviamente non si presenta caratterizzata da qualche patologia, abbia come sua vocazione la felicità è qualcosa non di congiunturale, bensì di propriamente strutturale, in quanto la famiglia è comunità in cui si valorizza tanto la eguaglianza quanto la diversità in un orizzonte di solidarietà.
Sotto questo profilo, le scienze umane (specialmente quelle psicologiche e sociali) studiano la famiglia in modo da metterla in condizione di essere quella comunità “felice”, cui per se stessa aspira. Anche l’odierna situazione, che sta rivoluzionando la struttura familiare, punta ugualmente a ben vedere a creare nelle nuove famiglia (monogenitoriali o plurigenitoriali, allargate o allungate) condizioni che permettano loro di essere “felici”. Certamente, la cosa non è facile, anche perché il rinnovamento della famiglia comporta un rinnovamento delle stesse forme di felicità che, per quanto possano essere diverse, non possono non esprimere tuttavia il senso di appagamento esistenziale in termini individuali che relazionali.
Altra istituzione che dovrebbe guardare alla felicità come questione che la coinvolge è la scuola, la quale com’è noto è invece e spesso motivo di infelicità, per tutta una serie di ragioni, che (solo per esemplificare) vanno dal rapporto docenti-studenti, sovente caratterizzato da avvilimento o paura dei ragazzi, al rapporto tra gli stessi studenti, sempre più frequentemente caratterizzato da fenomeni di bullismo. Così la scuola tradisce bellamente se stessa, diventando luogo ansiogeno o stressante, causa di diretta o indiretta di infelicità.
Si badi: non è che la scuola debba immediatamente perseguire la felicità, ma certamente non deve ostacolarla, e deve mettere in condizione coloro che vi operano di “vivere bene con se stessi, con gli altri con le istituzioni”, come suonava uno slogan programmatico della scuola di qualche anno fa.
E’ infine d’obbligo almeno un richiamo al campo dell’educazione, dove la felicità può accompagnare i momenti di crescita del soggetto educando, più precisamente può riguardare in famiglia i processi affettivi e sociali, quando sono contrassegnati da quell’amore pensoso e generoso, nutrito e percepito, pensato e ricambiato, e nella scuola i processi di insegnamento e apprendimento, quando essi sono all’insegna di quello “studere” che, già etimologicamente, comporta dedizione e passione, e che in ogni caso richiede un clima di serenità anche di competitività ma serena) per essere produttivo
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6. PER CONCLUDERE
6.1. Felicità autentica e inautentica
Avviandoci alla conclusione, è da sottolineare (dopo quanto detto) la necessità di non confondere la felicità autentica con la pseudofelicità. Nel suo fondamentale “saggio di teoria degli affetti” dedicato appunto a La felicità, Salvatore Natoli fa alcune affermazioni che ci paiono essenziali per intendere correttamente il problema della felicità. Questa esiste “non perché gli uomini ne possiedono il concetto, ma perché talvolta ne sperimentano la condizione” (p. 11); in questo senso “la felicità non è attingibile per via di riflessione”, tant’è che “l’uomo non sa di essere felice, ma si sente felice” (p. 14).
Inoltre, “una volta vissuta, la felicità non può essere dimenticata”: può “essere perduta come condizione di vita, ma non può essere cancellata come esperienza” (p. 12).
E’ da aggiungere che oggi -come ha evidenziato Franco Riva- siamo sommersi da immagini della felicità che lasciano credere che sia in fondo facile raggiungerla, come se fosse uno stato particolare (oggi effimero) o la messa in pratica di un’idea una volta scoperto cosa sia davvero. Tutto il tempo dell’uomo è tempo di felicità e infelicità, in particolare lavoro, festa e tempo libero (di cui si è occupato Riva) hanno una straordinaria capacità di dire e di disdire insieme la felicità. Il fatto è che la felicità va colta nella sua complessità, evitando i tanti equivoci della felicità così spesso ridotta a una pace del cuore e della mente, mentre la felicità porta anche con sé rottura, la denuncia delle proprie illusioni, dei propri idoli.
Non c’è un unico modo di essere felici, ma tanti modi, che variano da individuo a individuo non meno che nello stesso individuo. Ma è sempre felicità che impegna seriamente e serenamente, e che si conquista a caro prezzo. Ecco perché bisogna diffidare della felicità a buon mercato, della felicità tanto appariscente quanto apparente, della felicità simulacro o idolo.
6.2. Definizioni di vita felice
Riteniamo che, per distinguere tra felicità autentica e felicità inautentica, sia necessario tenere fermo il nesso tra felicità e persona, per cui vera felicità è quella che umanizza la persona, mentre falsa felicità è quella che la disumanizza. Al fine di fornire qualche criterio di discernimento che eviti la retorica e il moralismo, formuliamo alcune definizioni di vita felice; si tratta, ovviamente, di definizioni “generaliste”, con cui -diversamente da tante formule più o meno “miracolistiche”- non si vuole fornire sconti per un supermercato della felicità, né ricette per una facile quanto immediata felicità, ma si vuole invece mostrare come il concetto di felicità si leghi quello di persona, e mostrare così il carattere umanistico della felicità, offrendo quindi un criterio per distinguere tra felicità autentica e felicità spuria: maturativa quella, e dispersiva questa.
Una prima definizione generalista di vita felice è quella che la identifica con una vita vera, buona e bella, per dire una vita autentica, riuscita e ammirevole. In questa ottica, sono chiamati in causa quelli che tradizionalmente erano i “trascendentali” (in senso ontologico nella classicità, e in senso antropologico nella modernità) e che oggi sono chiamati “fondamentali” dell’esistenza; infatti, come avviene negli altri campi, anche per l’esistenza si parla di “fondamentali”, che è necessario conoscere, per condurre adeguatamente la vita. Ebbene, il vero, il buono e il bello appaiono gli obiettivi fondamentali della vita umana che devono essere perseguiti non separatamente né in alternativa, bensì insieme: secondo una visione integrata. D’altra parte, senza scomodare la filosofia, basterebbe appellarsi al linguaggio comune o alla saggezza popolare, secondo cui sono sinonimi le espressioni “vita vera”, “vita buona” e “vita bella”, e tutte servono a indicare la “vita felice”, la vita “riuscita”.
Una seconda definizione generalista di vita felice è quella che la definisce come vita libera, giusta e solidale, ispirata cioè dagli ideali cristiani e moderni di libertà, eguaglianza e fratellanza, nel senso che il presupposto della felicità è la libertà (il beethoveniano “inno alla gioia” avrebbe dovuto intitolarsi “inno alla libertà”, ha ricordato recentemente Giulio Giorello), ed è nell’orizzonte della libertà che sono da sviluppare relazioni paritetiche e, insieme, asimmetriche, nel senso che le differenze non si debbono trasformare in diseguaglianze, e gli uguali diritti si debbono accompagnare a uguali opportunità, ferme restando le diverse esigenze di ciascuno. Così la felicità si caratterizza per l’ispirazione a certi ideali e l’aspirazione a realizzarli concretamente. Ancora una volta, la felicità come scelta di vita, come ideale storico concreto, il cui valore sta nel motivare tutti e ciascuno a vivere una vita all’altezza della umanità propria e altrui.
Una terza definizione generalista di vita felice è quella che la concepisce come vita degna, rispettosa e dialogica, nel senso che è vissuta all’insegna del riconoscimento della dignità della persona in sé e negli altri; della rivendicazione dei diritti dell’uomo e dei connessi doveri; e dell’esercizio del dialogo non come tattica o strategia per convincere, bensì come filosofia di vita che trasforma il vivere sociale in un “vivere con” fino a diventare un “vivere per”, per cui la felicità rivela il suo volto individuale non meno che sociale, il suo volto interiore non meno che esteriore, il suo volto morale e politico non meno che economico e ecologico.
Una quarta definizione generalista di vita felice è quella che la configura come una vita autentica, aperta ed accogliente, nel senso che è consapevole dell’essere persona, senza cedere all’individualismo; che riconosce il valore del pluralismo, senza confonderlo con il relativismo: che s’impegna per la pace senza confonderla con l’inerzia o l’inettitudine; ragion per cui la felicità si configura come valorizzazione di tutti e di ciascuno, come operosità cooperativa, come capacità di fare sistema: ancora una volta la felicità si collega ad una impostazione integrale della vita personale e comunitaria.
Con queste quattro formulazioni di vita felice abbiamo voluto mostrare come una definizione della felicità non possa prescindere da una concezione antropologica, entro il cui orizzonte s’iscrive il tema della felicità, per cui, cambiando la visione dell’uomo, cambia anche la visione della felicità.
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6.3. Elogio della incompletezza
Per terminare, diciamo che, di fronte alle tante concezioni che, nel tempo e nel contempo, sono state date della felicità, occorre prendere posizione, seppure senza la pretesa di disporre di una definizione assoluta della felicità. Da parte nostra abbiamo cercato di individuare alcuni volti della felicità -come soluzione esistenziale, come scelta valoriale, come scommessa vitale, come segnale testimoniale- senza peraltro ritenere di aver così esaurito le espressioni della felicità, e vorremmo pertanto far nostro l’elogio della incompletezza fatto da Salvatore Veca.
Secondo questo filosofo, data “la natura elusiva e sfuggente dell’idea di felicità”, “rispondere filosoficamente nel modo giusto alla natura elusiva e sfuggente equivale a sostenere l’incompletezza della prospettiva, che si contendono il campo di battaglia per la conquista dell’ultima parola” (p. 73). E precisa. “lo stato di provare felicità o del sentirci felice, azzera per noi l’incertezza. Nel senso che li sospende, ed esemplifica in tale modo il caso dell’equilibrio puro”. Infatti, “nessuno che si trovi nello stato di sentirsi felice defezionerebbe dallo stato in cui gli accade di sentirsi felice”, per cui “la configurazione di equilibro (…) e la sospensione dell’incertezza generano la condizione soggettiva di completezza”, nel senso di “appagamento”.
Ebbene, conclude Veca (e noi con lui), “l’elogio della incompletezza risponde nel modo gusto alla complicazione di questa vicenda”, in cui “le nostre vite stesse oscillano fra l’orientamento ai fini collettivi e ai valori della città e l’orientamento alla cura di sé e ai propri progetti di vita personale”. Tale elogio “resiste alla tentazione ricorrente dell’ultima parola e del monismo nella valutazione e nel giudizio su quanto, in una essenziale varietà di circostanze nello spazio e nel tempo, rende una vita una vita riuscita e appagata per chi la vive (p. 75).
Dunque, “l’elogio della incompletezza dipende dall’elogio del pluralismo”, e questo ci riconduce all’inizio della nostra riflessione, quando mettevamo in luce la complessità dell’idea di felicità che si può comprendere adeguatamente, a condizione che, per un verso, si evitino univocità ed equivocità, e, per altro verso, si rispetti la multivocità, che è tale perché molteplici sono i paradigmi e i modelli, gli approcci e le condizioni, di cui la felicità può essere fatta oggetto, nessuno di essi può pretendere di monopolizzarla, ma ciascuno di essi può favorirne una approssimazione.
Prof. Giancarlo Galeazzi
Note
1) Ciò trova conferma dal punto di vista storico, come si evince tra l’altro dalla Storia della felicità: gli antichi e i moderni di F. De Luise e G. Farinetti; da La ricerca della felicità: dall’età dell’oro ai giorni nostri di A.Trampus; dalle Teorie della felicità di Autori Vari; da Felicità: un’ipotesi: verità moderne e saggezza antica di J. Haidt; nonché dagli Atti del convegno su Piacere e felicità: fortuna e declino; e dai Saggi in storia delle idee di C. Rosso dal titolo Felicità vo’ cercando.
2) Per approfondimenti sulla felicità di tipo religioso, suggeriamo i volumi collettanei Desiderio di felicità e dono della salvezza; e Beatitudine e benessere: modelli conflittuali nella ricerca della felicità?; e le monografie di autori cattolici come J. M. Castillo su Dio e la nostra felicità; di E. Bianchi su Le vie della felicità che identifica con Gesù e le beatitudini; e di U. Muratore su Felicità., dove indica la via cristiana per conquistarla in pienezza; si vedano anche i volumi di due Dalai Lama: H. C. Cutler su L’arte della felicità, e T. Gyatso su La felicità al di là della religione.
3) Per approfondimenti in proposito ci limitiamo a segnalare i seguenti volumi: per il pensiero classico ed ellenistico: C. Horn, L’arte della vita nell’antichità. Felicità e morale da Socrate ai neoplatonici; S. Gastaldi, Bios kairetotatos. Generi di vita e di felicità in Aristotele; J. Annas, La morale della felicità in Aristotele e nei filosofi dell’età ellenistica; G. Mancini, L’etica stoica da Zenone a Crisippo; R. Massolo, Il problema della felicità in Epicuro; per il pensiero patristico e scolastico: R. Bodei, Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste; I. Sciuto, La felicità e il male. Studi di etica medievale; Aa. Vv., La felicità nel Medioevo; G. Samek Lodovici, La felicità del bene. Una rilettura di Tommaso d’Aquino; per il pensiero moderno: C. Rosso, Illuminismo felicità e dolore. Miti e ideologie francesi.
4) Alcuni classici antichi e moderni possono essere considerati: Aristotele, Etica Nicomachea; Epicuro, Lettera sulla felicità; Seneca, Sulla felicità; Agostino, La felicità; Tommaso d’Aquino, La felicità; A. Schopenhauer, L’arte di essere felici; B. Russell, La conquista della felicità; J. Krishnamurti, La ricerca della felicità.
5) Queste (ed altre) concezioni sono caratteristiche della classicità e della modernità, e sono rinverdite anche nel nostro tempo con orientamenti, tra cui segnaliamo quelli del neoedonismo con Michel Onfray (L’arte del gioire. Per un materialismo edonista, La cura dei piaceri. Costruzione di un’erotica solare, La potenza di esistere. Manifesto edonista), del neoaristotelismo con Robert Spaemann (Felicità e benevolenza) del neoumanismo con Amartya Sen (Scelta, benessere, equità).
In Italia, tra i vari orientamenti segnaliamo quelli del neopaganesimo con Salvatore Natoli (I nuovi pagani. Neopaganesimo: una nuova etica per forzare le inerzie del tempo, Vita buona, vita felice, La felicità, La felicità di questa vita, ma si potrebbe ricordare anche Umberto Galimberti con Il mito della felicità), del neoaristotelismo con Carmelo Vigna (La felicità fuori del tempo, La persona e la felicità, ma si potrebbe ricordare anche Luca Grecchi con Conoscenza della felicità), del neotomismo con Giuseppe Abba (Felicità, vita buona, virtù. Saggio di filosofia morale), del neorazionalismo con R. Bodei (Geometria delle passioni. Paura speranza, felicità: filosofia e uso politico, Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, La politica e la felicità, Attese di felicità).
6) Per approfondire il rapporto tra politica e felicità si possono vedere i volumi di R. Bodei e L. F. Pizzolato su La politica e la felicità; e dello stesso Bodei sulla Geometria delle passioni, dove prende in considerazione paura, speranza, felicità, per chiarirne filosofia e uso politico; la monografia della Zaltieri, che trattando di etica e politica nel tardo Novecento, studi il rapporto tra Felicità e bene comune; e il “dialogo” del giurista G. Zagrebelsky e del giornalista E. Mauro su La felicità della democrazia.
7) Per approfondire il rapporto tra economia e felicità si possono vedere alcuni volumi di due orientamenti economici: quello di economia civile e quello di economia della decrescita. Sulla prima si veda l’indagine su beni e benessere di L. Bruni, intitolata L’economia, la felicità e gli altri.; dello stesso Bruni e S. Zamagni è importante il trattato di Economia civile, incentrato sulle categorie di efficienza, equità, felicità pubblica; da tenere presenti alcuni volumi di L. Becchetti: Contro il declino per una felicità sostenibile; La felicità sostenibile. Economia della responsabilità sociale; Il denaro fa la felicità?; Oltre l’homo oeconomicus. Felicità, responsabilità, economia delle relazioni; dello stesso Becchetti in collaborazione con L. Bruni e S. Zamagni è da vedere Dall’homo oeconomicus all’homo reciprocans. Sulla decrescita poi si vedano i libri di S. Latouche, Breve trattato della decrescita serena; dello stesso Latouche e D. Harpagès, Il tempo della decrescita. Introduzione alla frugalità felice; di M. Pallante, La decrescita felice. La qualità della vita non dipende dal PIL; e di L. Madiai, Decrescita felice e rivoluzione umana.
8) Per approfondire il rapporto tra ecologia e felicità si veda: E. Schumacher, La misura della felicità con le sue riflessioni su ecologia ed economia dalle grandi alle piccole cose.
9) Cfr. Il diritto alla felicità. Storia di un’idea di A.Trampus, e più specificamente: Kant e il diritto alla felicità di L. Scuccimarra).
Bibliografia
Il punto di vista storico
Studi complessivi
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C. Rosso, Felicità vo’ cercando. Saggi in storia delle idee, Longo, Ravenna 1993;
F. De Luise – G. Farinetti, Storia della felicità. Gli antichi e i moderni, Einaudi, Torino 2001;
J. Haidt, Felicità: un’ipotesi. Verità moderne e saggezza antica, Codice, Torino 2008;
A.Trampus, Il diritto alla felicità. Storia di un’idea, Laterza, Roma-Bari 2008;
A. Torno, L’infelicità. Storia di una passione, Mondadori, Milano 1996;
G. Minois, La ricerca della felicità. Dall’età dell’oro ai giorni nostri, intr. di L. Canfora, Dedalo, Bari 2010.
Studi monografici
C. Horn, L’arte della vita nell’antichità. Felicità e morale da Socrate ai neoplatonici, Carocci, Roma 2005;
M. C. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, Il Mulino, Bologna 2011;
S. Gastaldi, Bios kairetotatos. Generi di vita e di felicità in Aristotele, Bibliopolis, Napoli 2003;
J. Annas, La morale della felicità in Aristotele e nei filosofi dell’età ellenistica, Vita e Pensiero, Milano 1997;
G. Mancini, L’etica stoica da Zenone a Crisippo, CEDAM, Padova 1940: R. Massolo, Il problema della felicità in Epicuro, Palermo 1951;
N. De Luca, La vera felicità. Seneca e Agostino maestri dell’oggi, Rubbettino, Soveria Mannelli ;
I. Sciuto, La felicità e il male. Studi di etica medievale, Angeli, Milano 1995;
R. Bodei., Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, Il Mulino, Bologna 2005;
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G. Samek Lodovici, La felicità del bene. Una rilettura di Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero, Milano 2002;
G. Grandi, Felicità e beatitudine. Il desiderio dell’uomo fra vita buona e salvezza nel De batitudine di Tommaso d’Aquino, Meudon, Portogruaro 2010;
G. Perrotti, Filosofia, felicità, memoria. Saggi su Platone, Cartesio, Begson, Bibliopolis, Napoli 2004;
B. Thomass, In compagnia di Spinoza. Raggiungi la felicità, Bis, 2012;
C. Calabi – M. Mazzocut-Mis, Pratica filosofica IV, Leibniz e la felicità mentale. La contingenza della forma, Cuem, Milano 1994;
D. Tafani, Virtù e felicità in Kant, Olschki, Firenze 2006; L. Scuccimarra, Kant e il diritto alla felicità, Editori Riuniti, Roma 1997;
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G. De Micheli, Felicità e storia, Quodlibet, Macerata 2001;
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Il punto di vista teoretico
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Aa. Vv., Teorie della felicità, Francisci, Abano Terme 1986,
O. M. Aïvanhov, I semi della felicità, Prosveta, Moiano (PG) 1999;
S. Klein, La formula della felicità, Longanesi, Milano 2003;
M. Seligman, La costruzione della felicità, Sperling & Kupfer, Roma 2005.
Studi filosofici
Aristotele, Etica Nicomachea, Laterza, Roma-Bari 2004, libro I;
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C. Vigna, La persona e la felicità, in Aa. Vv., Estraneità interiore e testimonianza, Studi in onore di A. Rigobello, a c. di A. Pieretti, ESI, Napoli 1995, pp. 127-135;
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M. Onfray, L’arte del gioire. Per un materialismo edonista, Fazi, Roma 2009;
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L. Becchetti, Contro il declino per una felicità sostenibile, Effatà, Cantalupa 2005;
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M. Pallante, La decrescita felice. La qualità della vita non dipende dal PIL, Editori Riuniti, Roma 2005, Ed, per la Decrescita felice, 2011;
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U. Muratore, Felicità. La via cristiana per conquistarla in pienezza, Ed. Rosminiane Sodalitas, Stresa 2012;
C. Schonborn, Sulla felicità. Meditazioni per i giovani, ESD, Bologna 2012;
T. Gyatso (Dalai Lama), La felicità al di là della religione, Una nuova etica per il mondo, Sperling e Kupfer, Milano 2012.
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GIANCARLO GALEAZZI è nato nel 1942 ad Ancona, dove risiede. E’ docente di Filosofia morale all’Istituto teologico marchigiano della Pontificia Università Lateranense. E’ direttore dell’Istituto superiore di scienze religiose “Lumen gentium”, dove insegna Filosofia teoretica. Tiene la rassegna annuale “A scuola di filosofia” per il Comune di Ancona. E’ stato fondatore ed è presidente della Società Filosofica Italiana di Ancona. E’ giornalista pubblicista; ed è stato collaboratore della terza pagina de “L’Osservatore Romano”. E’ studioso di personalismi filosofici e di personologie scientifiche.
Ha curato l’edizione italiana di alcune opere di Jacques e Raissa Maritain: Per una filosofia dell’educazione (Ed. La Scuola di Brescia), Cultura e libertà (Ed. Boni di Bologna), Georges Rouault (Ed. La Locusta di Vicenza) e Poesie (Coed. Massimo – Jaca Book di Milano). E’ autore , tra l’altro, dei volumi: Personalismo (Ed. Bibliografica di Milano) e Jacques Maritain un filosofo per il nostro tempo (Ed. Massimo di Milano).
E’ stato nominato membro dell’Accademia marchigiana di scienze lettere e arti, e Benemerito della scuola, della cultura e dell’arte. E’ stato nominato cittadino benemerito dal Comune di Ancona, e cittadino onorario dal Comune di Osimo.