Geronimo, capo spirituale Apache
Goyathly, meglio conosciuto come Geronimo, era il capo spirituale e guerriero degli Apache Chiricahua, un popolo nomade che viveva di caccia e di raccolta di frutti selvatici nei vasti territori semidesertici fra l’odierno confine fra il Messico e gli Stati Uniti d’America.
Questa popolazione indigena si definiva “IN-DE” ovvero “antico popolo” ma i primi conquistatori spagnoli li chiamarono “Apaches”, come facevano alcune popolazioni che vivevano in territori confinanti: nella loro lingua Apache significava “nemico”.
Gli spagnoli prima ed i messicani poi non si limitarono ad occupare le terre degli Apaches, ma vi costruirono missioni e fortini, per difendersi dagli attacchi e convertire gli indigeni al cristianesimo.
Nel Nuovo Mondo gli spagnoli avevano introdotto i cavalli e le armi da fuoco; in un primo momento questo li fece vincere sugli indigeni, che venivano catturati e fatti schiavi, ma gli Apaches, un popolo guerriero, impararono presto anch’essi a cavalcare e ad utilizzare i fucili, per potersi difendere.
Dopo gli spagnoli arrivarono i messicani e furono proprio loro a sterminare la famiglia di Geronimo, facendo nascere in lui un indomabile odio verso l’uomo bianco.
Nato nel giugno del 1829 nel canyon No-Doyohn in Arizona, alla foce del fiume Gila, Geronimo era un uomo piuttosto basso, con un viso triangolare, una folta capigliatura nera divisa in due da una scriminatura centrale, occhi brillanti e penetranti, sopracciglia costantemente aggrottate, naso piatto, zigomi sporgenti, bocca sottile.
Era rimasto orfano molto giovane e presto era entrato a far parte del consiglio dei guerrieri della sua tribù e si era sposato con Alopé. Aveva poi vissuto tranquillamente nel suo villaggio con la moglie e i tre figli.
Un giorno si era recato al mercato per scambiare i prodotti della caccia con armi e oggetti di prima necessità e quando era tornato, aveva trovato il villaggio indiano devastato dal passaggio di truppe messicane: Alopé e i tre bambini, la sua famiglia, erano stati sgozzati e le ragioni del massacro erano davvero incomprensibili, poiché gli Apaches vivevano tranquilli da molto tempo.
Prima di passare all’offensiva, Geronimo raccolse un vero e proprio esercito, fatto dei migliori guerrieri indiani, astutissimi e con una perfetta conoscenza del territorio.
Quando Geronimo vinceva una battaglia non occupava il territorio conquistato, si limitava a saccheggiarlo, per procurarsi cibo. Proibiva inoltre ai suoi uomini l’uso dell’alcool, di cui facevano provvista in qualche razzia contro i bianchi.
Per sette volte Geronimo venne ferito seriamente, ma quando aveva la vittoria in pugno nessun soldato riusciva a sfuggire alla sua ascia. Gli Apaches, insieme alle tribù dei Sioux, dei Cheyenne, degli Arapaho, opposero una fiera resistenza anche all’esercito statunitense, che dopo gli spagnoli ed i messicani, arrivò nelle loro terre, per colonizzarle.
Geronimo venne per la prima volta a contatto con le autorità americane un giorno in cui i capi indiani vennero da queste convocati per una visita di amicizia; si erano appena seduti sotto la tenda degli ufficiali quando arrivarono alcune sentinelle con il fucile imbracciato. Geronimo ed i suoi uomini compresero immediatamente l’inganno, con un balzo si gettarono sui picchetti della tenda, li strapparono e si dettero ad una fuga precipitosa.
Nel 1874 circa 4000 Apaches furono obbligati dalle autorità statunitensi a stabilirsi nella riserva di San Carlos, un luogo semidesertico nell’Arizona del centro-est. Questo forzato trasferimento venne chiamato ‘cammino delle lacrime’ perché durante il tragitto, di oltre duecento chilometri a piedi, morirono di stenti vecchi, donne e bambini. Gli indiani furono confinati nelle Riserve di San Carlos, White Mountain, Fort Apache.
In questa riserva gli Apaches furono costretti ad americanizzarsi, dimenticando la guerra e la caccia, vivendo di agricoltura. Cominciò anche l’oppressione di questo popolo anche per quanto riguardava l’osservanza delle loro leggi, tradizioni e religioni.
Geronimo ed i suoi non riuscirono a sopportare a lungo questo tipo di vita e nel maggio del 1885 fuggirono dalla riserva e si rifugiarono in Messico, dove ricominciarono i saccheggi e la loro lotta all’uomo bianco. La sua banda arrivava appena a 50 uomini, ma aveva tanto coraggio da affrontare migliaia di militari.
Washington ordinò allora al comandante Croock di sferrare il colpo decisivo non appena se ne fosse presentata l’occasione, che arrivò nel 1886, quando un guerriero indiano offrì agli Americani di condurli nel rifugio dei saccheggiatori.
Una compagnia del 6° Cavalleria, guidata da duecento scouts indiani, penetrò nella Sierra Madre e gli Apaches subirono i primi duri attacchi.
Dopo un mese Geronimo si arrese, sconfitto.
Geronimo dovette accettare per se stesso e per i suoi uomini la deportazione a St. Auguste, Florida, con la promessa dei generali dell’esercito americano di poter fare ritorno nelle loro terre dell’Arizona dopo breve tempo.
Furono invece messi ai lavori forzati, poi trasferiti in Alabama ed infine in Oklahoma, da cui uscirono liberi solamente nel 1913.
Geronimo divenne un personaggio epico, anche grazie ai racconti che si facevano delle sue battaglie, spesso esagerati dai cronisti dell’epoca. Gli ultimi anni di Geronimo non sono quelli di un Capo guerriero, ma quelli di un prigioniero che cerca di sopravvivere adattandosi agli usi ed ai costumi dei suoi carcerieri.
Si convertì infatti alla Chiesa protestante olandese, dalla quale fu poi espulso perché non riusciva a trattenersi dal gioco d’azzardo; molto tempo dopo partecipò alla tournée con lo show di Pawnee Bill, nel 1901 a Washington partecipò alla grande parata organizzata per l’ingresso alla Casa Bianca del presidente Theodore Roosevelt.
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Visse gli ultimi anni della sua vita vendendo, grazie ad uno speciale permesso governativo, le sue foto, per 2$ l’una ed alcuni lavori artigianali. Geronimo, ormai vecchio e in punto di morte chiese ai suoi familiari di legare ad un palo vicino alla sua tomba il suo cavallo e tutte le sue cose, perché tre giorni dopo la morte sarebbe tornato a riprenderle, ma dopo che fu spirato, il 17 febbraio 1909, la sua vedova fece seppellire tutto.
Per questo c’è ancora chi aspetta il suo ritorno. Morì nella riserva di Oklahoma, da prigioniero, senza aver mai potuto rivedere la sua terra. Una piccola località del Nuovo Messico porta oggi il suo nome.
Dr. Walter La Gatta
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Dr. Walter La Gatta
Psicologo Psicoterapeuta Sessuologo
Delegato Regionale del Centro Italiano di Sessuologia per le Regioni Marche Abruzzo e Molise.
Libero professionista, svolge terapie individuali e di coppia
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