Freud e la Grande Guerra
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La Prima guerra mondiale ebbe un impatto profondo su Sigmund Freud, non solo come scienziato, ma anche come uomo. All’età di 58 anni, quando il conflitto scoppiò nel 1914, Freud viveva a Vienna, capitale di un Impero Austro-Ungarico, che sarebbe presto crollato sotto il peso della guerra. Questa esperienza trasformò il suo modo di pensare, portandolo a riflettere sui lati più oscuri della psiche umana e sui pericoli insiti nella civiltà. Cerchiamo di saperne di più.
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Nel Luglio 1914 Sigmund Freud pensava più alle dimissioni di Carl Gustav Jung che all’imminente conflitto mondiale (“Finalmente ci siamo sbarazzati di Jung, quel pazzo irragionevole e i suoi accoliti” scrisse a Karl Abraham il giorno 26 del mese).
Poi, il precipitare degli eventi: l’Austria, a seguito dell’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando, avvenuto il 28 Giugno, dichiarò guerra alla Serbia. Le potenze occidentali (Francia ed Inghilterra per prime) si opposero a questa sorta di punizione esemplare che l’impero austro-ungarico voleva infliggere alla Serbia.
Freud, sul piano politico, era un conservatore: ebbe modo di affermare più volte il suo sentirsi veramente e profondamente “austriaco”, ben lontano dunque dalle posizioni pacifiste.
L’unico rammarico che aveva era che l’amatissima Inghilterra (della quale ammirava la cultura e la scienza), avesse scelto di stare dalla parte “sbagliata” del conflitto internazionale. (Ciò nonostante, quell’anno mandò sua figlia Anna in Inghilterra, senza mostrarsi particolarmente preoccupato)
In una lettera a Ferenczi del 9 Novembre 1914 (Freud Collection), lo psicoanalista scrisse: “La voce della psicoanalisi nel mondo viene coperta dal tuono dei cannoni”.
Le cose infatti volgevano sempre più al peggio: molti psicoanalisti lasciavano il loro lavoro e si arruolavano nell’esercito, altri semplicemente lasciavano le città di residenza, così come buona parte dei pazienti dello studio Freud.
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Freud era troppo anziano per andare in guerra, ma non i suoi figli maschi (Oliver, Ernst e Martin), che vennero infatti tutti chiamati alle armi.
I primi due combatterono sin dall’inizio e per tutta la durata della guerra, mentre Martin fu richiamato in un secondo momento (poi fu dato per disperso, mentre era prigioniero in Italia; in seguito fu liberato, nell’Ottobre 1919).
Freud, inizialmente, non nascondeva il suo patriottismo austriaco e una certa fiducia nell’esito della guerra.
Il 26 luglio 1914, tre giorni dopo l’ultimatum austro-ungarico al regno serbo, e due giorni prima della dichiarazione di guerra, Sigmund Freud scriveva in una lettera ad Abraham:
Forse per la prima volta in trent’anni mi sento davvero austriaco, vorrei dare un’altra possibilità a questo
impero, nel quale avevo così poca speranza. L’umore è eccellente ovunque. L’effetto liberatorio della scelta
coraggiosa e il sicuro sostegno della Germania hanno contribuito a questo in gran parte. In tutti si
osservano le più genuine azioni sintomatiche (Freud, 1914).
Tuttavia, man mano che il conflitto proseguiva e la devastazione si faceva sempre più evidente, la sua visione si trasformò in una profonda disillusione. Freud osservava con preoccupazione come la guerra mettesse in luce la brutalità e la primitività della natura umana, smantellando l’illusione di un progresso civile che aveva caratterizzato l’Europa prima del 1914.
In un saggio, scritto fra Marzo ed Aprile del 1915, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, Freud paragonò il comportamento della società del tempo al comportamento tipico delle società primitive: l’azione vietata ai singoli diventa lecita quando si fa collettiva.
Si tratta cioè di una vera e propria deroga al divieto di uccidere. Nell’inconscio permane, infatti, nonostante ogni impostazione etica, un’aggressività mortale, in quanto l’essere umano non elabora sufficientemente i vissuti di morte: si limita a rimuoverli o a negarli, ma essi riappaiono dall’esterno sotto forma di minaccia.
Ciò che sembrava turbare Freud più di ogni altra cosa tuttavia era che la scienza, nel conflitto, sembrava aver perduto la sua imparzialità.
Gli umanisti, gli storici, gli antropologi e gli intellettuali in genere si erano infatti messi al servizio dei loro Paesi e usavano la loro scienza come arma di lotta contro il nemico.
Gli antropologi dicevano, ad esempio, che il nemico era inferiore e degenerato, gli psichiatri diagnosticavano malattie mentali ai capi degli Stati nemici.
In una lettera ad Abraham del 15 maggio 1915, Freud scrisse che il suo lavoro stava “prendendo forma”. La forzata inattività lo aveva infatti spinto a scrivere molti saggi, fra cui Le Pulsioni e loro destini, Repressione, Inconscio, un supplemento metapsicologico alla teoria dei sogni, Lutto e Melanconia.
“I primi quattro saranno pubblicati nella serie Zeitschrift attualmente in corso; terrò il resto per me. Se la guerra durerà abbastanza a lungo, spero di essere in grado di mettere insieme una dozzina di saggi simili e di pubblicarli in tempi più tranquilli”
Ciò che andava elaborando era la metapsicologia, un compendio di tutto il pensiero freudiano, che lo psicoanalista vedeva come una sorta di testamento.
Freud pubblicò anche “Pensieri per il « Times » sulla guerra e la morte” (1915): un saggio approfondito sulla violenza, l’odio, e l’illusione della bontà originaria, che fornì poi una prospettiva per la futura concettualizzazione della pulsione di morte. Oltre che nello scrivere, Freud si tenne impegnato con delle conferenze, tenute all’Università di Vienna, che costituirono la base per la futura Introduzione alla psicoanalisi (1916-1917).
Lo psicoanalista attraversò momenti di grande tensione emotiva durante il conflitto. La scarsità di risorse a Vienna peggiorò la situazione, rendendo difficile anche la pratica quotidiana della psicoanalisi, dato che molti dei suoi pazienti erano partiti per il fronte o avevano perso la possibilità di pagare le cure.
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Alla fine della guerra, Freud era divenuto un pacifista: un percorso intellettuale non indifferente. Secondo lui la guerra non aveva fatto che mettere in evidenza quello che gli psicoanalisti sapevano già sull’aggressività umana.
La guerra era durata quattro anni ed aveva causato circa 10 milioni di vittime, anche per l’uso di nuove tecnologie, come le automobili e i gas tossici, lanciafiamme, guerra sottomarina, bombardamenti sui civili.
Quando la guerra terminò, nel 1918, Freud era profondamente cambiato. La sua visione del mondo era più cupa, e l’idea di un progresso lineare della civiltà appariva illusoria.
In “Al di là del principio di piacere” (1920), Freud elaborò pienamente la sua teoria della pulsione di morte, consolidando l’idea che la vita fosse sempre un delicato equilibrio tra forze di creazione e distruzione.
Il trauma della Prima guerra mondiale non solo segnò la vita personale di Freud, ma anche la sua visione della natura umana e del mondo, portandolo a teorizzare che il conflitto e la violenza fossero parte integrante della condizione umana.
L’armistizio dell’11 novembre 1918 portò a Freud (e sicuramente non solo a lui….) un notevole sollievo: tutto poteva, finalmente, ricominciare.
Dr. Giuliana Proietti
Fonti:Answer.com
Peter Gay Freud e la guerre
Donn, Freud e Jung, Leonardo
Silvia Vegetti Finzi, Storia della psicoanalisi, Mondadori
Immagine
Di Agence Rol – Bibliothèque nationale de France,
Altre immagini: Freud con i figli Oliver ed Ernest
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Dr. Giuliana Proietti
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In presenza riceve a Ancona Fabriano Civitanova Marche e Terni.
- Delegata del Centro Italiano di Sessuologia per la Regione Umbria
- Membro del Comitato Scientifico della Federazione Italiana di Sessuologia.
Oltre al lavoro clinico, ha dedicato la sua carriera professionale alla divulgazione del sapere psicologico e sessuologico nei diversi siti che cura online, nei libri pubblicati, e nelle iniziative pubbliche che organizza e a cui partecipa.
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