La prima seduta di psicoterapia strategica evoluta
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Psicoterapia strategica evoluta, Prof. Giorgio Nardone
Questo articolo è la trascrizione dell’intervento che Giorgio Nardone ha tenuto durante l’ultimo giorno del convegno. Il seminario riguarda l’importanza della prima seduta e l’uso del dialogo strategico nel Modello Evoluto di Terapia Breve Strategica. Attraverso l’uso del dialogo strategico la prima seduta comprende già sia il primo stadio della terapia, la definizione del problema, l’identificazione del sistema percettivo reattivo, le tentate soluzioni e la definizione degli obiettivi, che il secondo, quello in cui si sono verificati dei piccoli cambiamenti nel problema.
Negli ultimi anni del mio lavoro, ho ripensato molto al mio inizio a tutto quello che ho fatto per circa dieci anni in termini di performance da grande retorico, mandando centinaia di pazienti, come ho già detto, a comprarmi una mela facendo piroette… costruendo dei modelli di trattamento con specifici stratagemmi per specifiche patologie. E dopo questo lungo periodo, senza rendermene conto – perché le migliori cose le facciamo senza accorgercene – il mio stile è cambiato. In particolare lo stile di fare la prima seduta.
E alcuni dei miei allievi mi hanno cominciato a far notare che le mie prime interviste stavano cambiando in modo molto importante e questo ha dato modo a me di pensare cosa stava cambiando e così abbiamo cominciato a studiare videotape delle prime sedute fatte nel 1997 e confrontarle con quelle fatte nel 1990-91-92 con altre fatte negli anni ’80 e la prima cosa che è emersa è che il mio modo di fare domande è cambiato.
Non erano più domande aperte del tipo: “quando lei ha il suo attacco di panico cosa sente?” ma domande chiuse, in una sorta di illusione di alternative: “quando lei ha l’attacco di panico sente la paura di morire o la paura di perdere il controllo?”; e le persone rispondono con una di queste due risposte pianificate.
Ma ovviamente questa domanda è possibile solo perché nei dieci anni precedenti, studiando la sindrome di attacchi di panico, in tutte le sue forme e conoscendola attraverso le sue soluzioni – questo scandaloso costrutto che vi ho già presentato, ovvero conoscere un problema mediante la sua soluzione – il fatto che chi soffre di questo tipo di patologia ha una serie di ridondanze che si ripetono. e non solo per questo tipo di patologia, per tutti i tipi di patologia. ma questo non è ri-formulare un nuovo tipo di modello diagnostico, perché in questo caso: ‘si conosce cambiando’ e non prima si conosce per cambiare.
La procedura diagnostica diventa già un intervento, anzi il più importante degli interventi, perché se io dico ad una persona che soffre di attacchi di panico: – “quando lei ha l’attacco ha paura di perdere il controllo o ha paura di morire?”; e lui mi risponde: – “ho paura di perdere il controllo” – come nella maggioranza dei casi dell’ultimo decennio – io ho già diviso a metà le possibilità.
Come nella famosa maniera che molti di voi avranno visto nei miei libri, per indovinare un quadrato in una scacchiera, ogni domanda strategica riduce significativamente il campo nel quale io sto indagando.
E’ come un imbuto che si stringe, che guida fino alla conoscenza del funzionamento del problema. Ma una conoscenza che fanno insieme terapeuta e paziente, per questo io lo chiamo ‘dialogo’, dal greco dia logos: conoscenza in due.
Procedendo così, la terapia diventa un processo di ‘scoperta’ all’interno del quale paziente e terapeuta, attraverso una serie di domande, una serie di risposte e – come vedremo – una serie di parafrasi strategiche, giungono insieme a conoscere il problema nel suo funzionamento e a cambiarne la percezione. Ma questo vi sarà più chiaro andando avanti.
Quindi immaginate che la risposta del paziente sia: – “ho paura di perdere il controllo”; la seconda domanda sarà: – “ma questi momenti in cui lei ha paura di perdere il controllo, avvengono in situazioni che lei può prevedere o sono assolutamente imprevedibili?”.
E la persona il più delle volte risponde: – “Mah… non so!… però se ci penso bene solo in certe situazioni”.
E allora si ripete: – “e lei può prevedere queste situazioni?”.
E il paziente dice: – “sì, ora che ci penso sì. Ad esempio quando mi allontano da solo, oppure se sono in mezzo ad una folla, o se sono in un luogo chiuso… o se sono in un luogo alto…”; a seconda del tipo di fobia.
Proviamo ad analizzare adesso cosa abbiamo ottenuto con due domande: abbiamo ottenuto una conoscenza già corposa perché ora sappiamo che la persona non ha paura di morire ma ha paura di perdere il controllo, e che questo avviene in situazioni che lui può prevedere. ma questo dalla parte del terapeuta, dalla parte del paziente, il paziente comincia ad avere una chiara mappa del suo problema, con precise coordinate, e comincia a pensare che in realtà non ha paura di morire – già lo sapeva, ma adesso lo ha focalizzato – e che questo avviene solo in situazioni prevedibili.
Per procedere adesso è importante usare una parafrasi che ci conferma che andiamo nella giusta direzione. E allora diciamo alla persona:
– “mi corregga se sbaglio (one-down position) … ma lei mi sta dicendo che lei soffre di attacchi di panico, che corrispondono con la paura di perdere il controllo, e che questo avviene in situazioni che lei può prevedere”.
E la persona dice – “sì, proprio così”.
Ok, stiamo chiudendo una sorta di grande strada chiudendo togliendo corsie, ma stiamo facendo anche un’altra cosa importante, perché io ho detto “mi corregga se sbaglio”; faccio sentire lui quello che guida, non io che guido, e lui si sente importante, non squalificato. Non è di fronte al dottore che gli dice “faccia questo, questo e questo.” e nemmeno a quello
che gli dice “tu sei un malato di panico.”; si sente compreso ed emotivamente rinforzato, riconosciuto. significa che stiamo costruendo una relazione. Inoltre lui comincia ad avere una conoscenza focalizzata del suo problema e non focalizzata sulle sue cause, ma su come lui lo gestisce e come su questo funziona, e tutto questo con l’illusione di essere lui a guidare.
Continuiamo con le domande strategiche e la terza domanda è:
– “di fronte a queste situazioni prevedibili lei tende ad evitarle o tende ad affrontarle?”;
e questa è una domanda molto importante, perché discrimina se la persona è una dipendente da altri o se cerca di fare con le proprie forze, e questo orienta in modo completamente differente il trattamento.
Quando in queste giornate avete sentito parlare di attacchi di panico dalla dott.ssa Cagnoni, lei vi ha spiegato il modello di intervento focalizzandolo soprattutto sulla persona che fa i conti con se stesso, mentre il caso che vi ha presentato la dott.ssa De Antoniis era più sul livello di persona dipendente da un’altra e anche se il trattamento sembra lo stesso, è molto differente, perché in un caso ci si focalizza più sul rompere la dipendenza e far scoprire alla persona le sue risorse, mentre nell’altro ci si basa sul far disinnescare la trappola che la persona tira a se stessa.
Immaginiamo che la persona risponda: – “evito le situazioni”.
E allora la prossima domanda:
– “ma se proprio non le può evitare, cosa fa: chiede aiuto a qualcuno o le affronta da solo?”;
e di solito la persona dice in questo caso: – “Chiedo aiuto”.
Così abbiamo aggiunto un’altra cosa.
E allora si dice al paziente:
– “mi corregga se sbaglio per favore, quindi lei è una persona che soffre di attacchi di panico, che possono avvenire in situazioni che lei può prevedere, e lei tende ad evitare queste situazioni. Se proprio non può evitarle ha bisogno di un accompagnatore pronto ad intervenire nel caso in cui lei stia male”.
“… Proprio così!” – risponde il paziente.
Ora analizziamo queste quattro domande.
Noi abbiamo un sacco di conoscenza su come funziona il problema, adesso. Al tempo stesso la persona ha la mente focalizzata su come funziona il problema e su come lui tenta di gestirlo, le sue tentate soluzioni. Inoltre, la persona si sente compresa, di fronte ad una persona competente perché gli fa delle domande così cruciali, e questo incrementa la sua aspettativa terapeutica che è un elemento importante, è il famoso effetto placebo che si somma all’aspettativa e che diventa oltre il 50% di ciò che provoca cambiamento, a quanto ci dicono i ricercatori (Hubble, Duncan, Miller, 1999).
E procediamo e diciamo:
– “del suo problema lei tende a parlarne molto o tiene tutto per sé?”.
E immaginiamo che la persona dice: – ‘ne parlo con tutti’.
A questo punto noi abbiamo un quadro molto chiaro. Abbiamo il funzionamento del problema e abbiamo le tre basiche tentate soluzioni e possiamo cominciare a guidare indirettamente il paziente verso il cambiamento; e le domande diventano qualcosa che sia come lanciare una palla di neve, perché rotoli fino a diventare una valanga.
Allora chiederemo:
– “e quando ne parla lei sta meglio o sta peggio?”.
E il paziente: – “Sto meglio perché mi scarico”.
E quindi chiediamo:
– “quando lei ne parla mi ha detto che lei si sente meglio perché si scarica. Ma dopo qualche tempo sta meglio o sta peggio?”.
Di solito la persona ti guarda e dice: – “Ora che ci penso, dopo mi sento ancora più frustrato”.
Allora la parafrasi sarà:
– “quindi, se non ho capito male, lei ne parla molto, ma quando ne parla sta bene perché si sente scaricata, ma dopo si sente ancora più frustrata perché ha sentito ancora di più quanto è forte la sua incapacità”.
E la persona dice: – “Sì, proprio così”.
Stiamo cominciando a cambiare la sua percezione e le sue emozioni rispetto alle sue tentate soluzioni: una cosa che sembra far bene poi farà male.
E continuiamo con un’altra domanda:
– “e quando lei chiede aiuto a qualcheduno per affrontare qualcosa, e questa persona le offre il suo aiuto, lei sta meglio o sta peggio?”.
E la persona risponde usualmente: – “Meglio…! Sì, però dopo… sto peggio perché mi sento ancora più incapace”.
– “Ah, mi corregga se sbaglio, quindi quando lei chiede aiuto e lo riceve, lei lì per lì sta bene perché si sente salvo, ma poi si sente ancora più incapace, perché ricevere aiuto da qualcheduno disponibile comprova ancora di più che lei da solo non è in grado, e questo la fa sentire ancora peggio, ancora peggio, ancora peggio…”.
E la persona dice: – “Sì, proprio così”.
E di nuovo stiamo introducendo un elemento di cambiamento, con domande e parafrasi abbiamo fatto sentire, non capire. Sentire che quando ne parla o quando chiede aiuto la situazione peggiora. E’ molto importante la differenza tra ‘sentire’ e ‘capire’ perché, come potrebbe dirvi il professor ricci bitti, la psicologia da 20 anni è sotto una sbornia cognitiva.
Ma questa è una vecchia storia per gli esseri umani, l’illusione che se io capisco una cosa potrò cambiarla, ma ogni giorno abbiamo prove differenti. Tutti noi abbiamo provato la frustrazione di voler abbandonare qualcheduno, ma non riuscire a farlo. Abbiamo capito che non è la persona giusta, che tanto ci dà tanto ci toglie, allora vogliamo rompere con lui ma sentiamo di essere troppo legati a lui e non possiamo farlo. Esiste migliore prova della differenza tra sentire e capire?
Per me la terapia è far sentire differentemente, non far capire differentemente.
Cambiare la percezione delle cose, non cambiare la cognizione, perché se io cambio la percezione cambio la reazione emotiva, cambio la reazione comportamentale e come effetto finale cambio la cognizione. Mentre la stragrande maggioranza delle psicoterapie lavorano sul cambiamento della cognizione, oppure nel cambiamento del comportamento, o sul cambiamento delle emozioni. Ma ciò che avvia ogni processo è il nostro sentire, il nostro percepire, tutto il resto viene dopo.
Tornando al nostro paziente, attraverso la domanda e la parafrasi, il paziente sente differentemente, e sente che ogniqualvolta chiede aiuto e lo riceve, che ogniqualvolta ne parla e viene ascoltato, la situazione peggiora anche se lì per lì si sente meglio, e questo ci permette di chiedergli qualcosa che altrimenti sarebbe impossibile chiedere, e la persona può accettarlo perché ha capito che quello lo aiuterà.
E’ passato per un processo di ‘scoperta’ insieme al terapeuta. Una scoperta che però ha guidato lui, perché è lui che ha dato le risposte alle domande, non è stato spinto; il terapeuta
ha solo confermato le sue risposte e ha costruito il processo attraverso le domande.
Forse non molti di voi sanno che Kant, nella sua “critica della ragion pratica”, scrive ‘la maggioranza dei problemi degli esseri umani non deriva dalle risposte che essi si danno ma dalle domande che questi si pongono’.
PSICOLOGIA - SESSUOLOGIA
Autori: Dr. Giuliana Proietti - Dr. Walter La Gatta
Terapie Individuali e di Coppia
L’arte di fare domande è l’arte di creare risposte. Protagora il grande sofista era, come vi ho già detto giorni fa, il massimo specialista di questa arte. In questo modo guidiamo il paziente nella prima seduta a scoprire nuove percezioni del suo problema, ma così introduciamo sottilmente il cambiamento.
Conosciamo cambiando. Usualmente a questo punto noi diciamo alla persona:
– “mi permetta di riassumere tutto quello che abbiamo detto, e se sbaglio qualcosa mi corregga. lei è una persona che soffre di attacchi di panico, in situazioni che lei può prevedere, che lei tende ad evitare. Se non può evitarle chiede aiuto e ne parla molto, e quando ne parla dapprima si sente meglio, ma poi dopo sente che le cose vanno peggio, perché se l’ascoltano vuol dire che c’è qualcosa che non va in lei. Così come quando chiede aiuto per affrontare qualcosa che non può evitare lì per lì si sente salvo, ma dopo si sente ancora più incapace, perché se l’altro l’ha aiutata significa che lei da solo non è in grado”.
E la persona dice: – “Sì, proprio cosi!”.
– “Sa, quanto abbiamo detto fin qui mi ricorda qualcosa che ha scritto un famoso poeta, Fernando Pessoa, il quale scrive ‘porto addosso tutte le ferite delle battaglie che ho evitato’, e – io aggiungo – le ferite delle battaglie evitate non guariscono mai”.
E questo è come una lama rovente che entra nella persona.
La forma letteraria dell’aforisma – che è la mia preferita forma di comunicazione analogica a livello verbale – è dal mio punto di vista la più potente forma di comunicazione letteraria, perché è immediatamente evocativa; fa sentire le cose, non le spiega, e non richiede nessun impegno perché entra dentro di te da sola e la persona in quel momento di solito ha le pupille dilatate, ti guarda come un gatto di fronte ai fari di un auto.
E state pur sicuri che quell’aforisma rimane dentro la sua mente come un marchio a fuoco. Ma cosa abbiamo fatto fino qui? alcune domande, alcune parafrasi, un aforisma. Ma abbiamo introdotto un cambiamento molto pesante nella sua percezione delle cose. Perché adesso lui ha la percezione chiara, sentita, che alcune cose che lui faceva per salvarsi dalla paura faranno peggiorare la paura.
Non gli abbiamo spiegato che le sue tentate soluzioni fanno peggiorare il problema oltre che mantenerlo, glielo abbiamo fatto sentire, e questa è un’esperienza emozionale correttiva, è una scoperta avvenuta attraverso un processo di scoperta che il paziente pensa di aver guidato lui. Non è stato forzato, e sapete che se una persona si persuade da sola si persuade prima e meglio; questo già lo affermava Blaise Pascal, uno dei più grandi persuasori della storia.
Quindi la persona scopre che le sue tentate soluzioni sono qualcosa che fa peggiorare il suo stato. In altri termini abbiamo creato una ristrutturazione attraverso un processo di scoperta, abbiamo fatto quello che il mio caro maestro-amico Paul Watzlawick: un evento casuale pianificato.
Perché per il terapeuta è pianificato, ma per il paziente è una scoperta, e siccome la scopre lui, la sente lui, è molto più potente. A questo punto quello che usualmente si fa, in questi casi, è dare le prescrizioni. Adesso il paziente sarà molto disponibile ad accettarle, e in questo caso per esempio potremmo dire:
– “molto bene… (o, come sono solito dire io: “bene, bene, bene…” o: “ok, ok.”) …io vorrei che di qui a quando ci rivediamo lei pensasse a quello di cui abbiamo discusso insieme: al fatto che ogniqualvolta lei parla del suo problema lei fa peggiorare il suo problema; vorrei che lei pensasse che ogniqualvolta chiede aiuto e lo riceve lei fa peggiorare il problema anche se lì per lì sta meglio, così come ogniqualvolta evita di fare qualcosa, come Pessoa, porta addosso le ferite delle battaglie evitate. Ma io non posso chiederle di smettere di fare queste cose, perché lei non è in grado di farlo…”
(Questo è un paradosso; prima ti metto paura di una cosa e poi ti dico “però tu non sei in grado di non farla”. Metto una paura più grande contro una paura più piccola, e uso una piccola provocazione paradossale dopo che ti ho fatto sentire certe cose.)
– “quindi io non posso chiederti di smettere di evitare e di smettere di chiedere aiuto, perché tu non sei in grado, però pensa che ogniqualvolta lo fai non solo mantieni il problema ma lo stai facendo peggiorare. Posso chiederti però di evitare di parlarne perché questo è più facile. Poi ti chiedo un’altra cosa…”
Voi pensate che grazie a questo modo di fare la prima seduta e adesso vi ho fatto. Solo un esempio, il più semplice, sugli attacchi di panico, da esprimere. Ma per esempio sugli attacchi di panico ci sono molte varianti a seconda delle risposte alle domande, così come per un disturbo ossessivo-compulsivo o per un disturbo alimentare.
Per ogni tipo di patologia abbiamo messo a punto una serie di domande strategiche e parafrasi che però possono essere continuamente corrette dal fatto che ogni due o tre domande, attraverso la parafrasi, la persona ci dice se andiamo bene o no.
Quindi è un processo di scoperta autocorrettivo. Quindi si può correggere l’errore prima di averlo fatto ed aver combinato un guaio irreparabile, e questo può essere di grande aiuto per il terapeuta, perché può far sentire che io posso andare avanti senza correre grandi rischi per il paziente, perché ho costantemente una misura di dove sto andando.
Negli ultimi due anni il tasso di persone che hanno completamente ridotto a 0 il loro disturbo tra la prima e la seconda seduta è tra il 69-70% dei casi.
La spiegazione, e come diceva Wittghenstein ‘ogni spiegazione è un’ipotesi’ – e poi aggiunge tra parentesi nessuna spiegazione ipotetica ti potrà salvare dall’amore, perché quello è senza spiegazioni – la mia ipotetica spiegazione di questo così potente strumento anche se così sottile, apparentemente banale, è che in questa maniera si lavora contemporaneamente su tanti livelli.
Si lavora sulla percezione del problema del paziente, si lavora sulla sua relazione emotiva con il terapeuta, sulla sua aspettativa incrementando tutti gli effetti successivi, senza far sentire il paziente manipolato, perché è lui che guida, è lui che dà le risposte.
Al tempo stesso si cambiano i suoi comportamenti, le sue tentate soluzioni.
Quindi contemporaneamente si lavora sul livello percettivo, sul livello emotivo e sul livello comportamentale, e come effetto finale ci sarà anche il cambiamento delle cognizioni, ma questo solo dopo che la patologia è sbloccata.
Come vedete in questo caso si rovescia la procedura, la processualità usuale di tutte le psicoterapie, perché prima si ottiene il cambiamento e poi la consapevolezza, mentre nella maggioranza delle terapie prima si cerca la consapevolezza per ottenere poi il cambiamento. E’ chiaro che la terapia breve strategica evoluta è molto indebitata con l’arte dello stratagemma.
Prof. Giorgio Nardone (nell’immagine)
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Il Prof. Giorgio Nardone è fondatore, insieme a Paul Watzlawick, e direttore del Centro di Terapia Strategica (C.T.S.); vi svolge la sua attività di psicologo e psicoterapeuta, dirige la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Breve Strategica presso il C.T.S. in Arezzo e la Scuola di Comunicazione e Problem Solving Strategico ad Arezzo e Milano.
E’ Docente di Tecnica di Psicoterapia Breve presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica all’Università di Siena, Italia.
Le sue ricerche in campo clinico hanno condotto alla messa a punto di modelli di Terapia Breve specifici per particolari forme di patologie (attacchi di panico, disturbi fobico-ossessivi, disordini alimentari, ecc). Ha pubblicato 18 libri, tradotti anche all’estero, frutto delle ricerche svolte presso il Centro di Terapia Strategica di Arezzo. E’ cordinatore del Network Europeo di Psicoterapia Breve Strategica e Sistemica e della Rivista Europea di Psicoterapia Breve Strategica e Sistemica e Direttore della Collana “Saggi di Terapia Breve” Ponte alle Grazie editore, Milano.
Tiene regolarmente conferenze e seminari in Italia ed all’estero.
gnardone@giorgionardone.it
Credo che questo primo approccio terapeutico si basi su un bias iniziale, per altro dichiarato, ovvero l’utilizzo di una prima domanda chiusa, che limita le possibilità di risposta del paziente entro due alternative (sebbene in questo caso non credo si possa parlare di alternative, caso mai di dilemma, come insegnano Watzlawick e altri). Comprendo e conosco i presupposti teorici e pratici da cui muove l’approccio strategico breve, tuttavia non condivido la modalità restrittiva/direttiva qui dichiarata che esclude le infinite possibilità di risposta (e di narrazione) del paziente, oltre a condizionarne la libertà assertiva. Le risposte del paziente infatti spesso sono ben diverse dai risultati degli studi citati e da eventuali pattern di comportamento ripetitivi dati per scontati. Limitare le possibilità all’interno della relazione terapeutica, a mio avviso limita la possibilità di un effettivo cambiamento che vada oltre la risoluzione apparente/evidente del sintomo.
fondamentale per me che sto facendo ricerche sull’ipnosi, aver letto la registrazione della seduta. Chiedo se è reperibile la seconda parte, o se comunque si possono avere tracce simili su altre fobie o comportamenti, magari anche via mail. Sarei molto interessato al problema dell’insonnia.
grazie Salvatore