Cesare Pavese: una biografia
Cesare Pavese, celebre scrittore italiano del XX secolo, è noto per le sue opere letterarie intrise di introspezione e malinconia. Attraverso i suoi romanzi e le sue poesie, Pavese esplorò i temi dell’isolamento, della solitudine e della ricerca di significato nella vita, lasciando un’impronta indelebile nella letteratura italiana. Questa è la sua biografia.
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Cesare Pavese nacque a Santo Stefano Belbo, il 9 settembre 1908. Essere nato in questo paese fu quasi un destino in quanto la famiglia abitava da tempo a Torino e tornava a Santo Stefano soltanto d’estate per trascorrervi le vacanze.
Cesare nacque per caso fra quelle colline, le langhe, che ebbero tanta influenza nella sua vita. La famiglia era composta dal padre, cancelliere presso il tribunale di Torino, dalla madre, donna energica e di poche parole, dalla sorella Maria, nata sei anni prima; tre fratellini erano morti in tenera età.
Il nostro ragazzino frequentò la prima elementare nel paese di Santo Stefano a seguito di una malattia infettiva della sorella che costrinse la famiglia a rimanere nel paese.
Nel 1914, quando Cesare aveva soltanto sei anni, il padre, già malato da diversi anni, morì e da allora tutta la responsabilità della famiglia ricadde sulle spalle della madre che, come abbiamo già sottolineato, era una donna coraggiosa, austera, che non sapeva dimostrare il suo affetto se non lavorando per i figli. Certo è che la morte del padre e il carattere duro della madre causarono il primo vuoto nel cuore di Cesare; cominciò a svilupparsi una certa difficoltà di comunicazione nei confronti della madre.
Terminate le elementari frequentò il ginnasio-liceo; le classi inferiori presso i Gesuiti dell’ “Istituto Sociale”(scuola per figli di nobili e di ricca borghesia dove Pavese non si trovò a proprio agio perché non riusciva ad ambientarsi tra quei ragazzi viziati e snob), quelle superiori al “Massimo D’Azeglio” dove ebbe come professore di italiano e latino Augusto Monti che ebbe invece un peso determinante nella formazione del giovane.
Amico di Gobetti e ammiratore di Gramsci, il professore, in piena età fascista, sviluppava nella scuola torinese gli insegnamenti di resistenza al regime mantenendo un comportamento severo e paterno con gli studenti e riuscendo nel contempo ad accattivarsene la stima e l’affetto. Pavese usciva entusiasta dalle lezioni e fece amicizia con il compagno di studi Mario Sturani.
Dal 1931 al 1936 Cesare scrisse la prima stesura delle poesie “Lavorare stanca”. Nel frattempo, nel 1935 venne arrestato perché trovato in possesso di alcune lettere compromettenti e condannato a tre anni di confino da scontarsi in un piccolo paese della costa ionica, Brancaleone Calabro.
Debilitato da violenti attacchi d’asma, probabilmente di origine nervosa, fece domanda di grazia che gli valse la riduzione della pena. Quando però tornò a Torino venne a saper che la donna che amava e che indirettamente aveva causato il suo arresto (le lettere incriminate erano indirizzate a lei) si era sposata.
Cominciò la sua “tragedia privata” che lo indusse a cercare la solitudine. A nulla valse la pubblicazione di “Lavorare Stanca”, che oltre tutto era stato accolto con scarso interesse, né frequentare gli amici (i più importanti dei quali erano in carcere), verso i quali si sentiva in colpa per aver chiesto la grazia.
Ritornò intanto alle traduzioni e passò in breve dalla poesia alla prosa. Fra il 1938 e il 1941 scrisse “Il carcere”, Paesi tuoi”, “La bella estate”, e “La spiaggia” cominciando a lavorare per la casa editrice Einaudi con la quale aveva già avuto delle collaborazioni.
Verso la fine del 1940 nella vita di Pavese entrò la seconda donna di rilievo. Si chiamava Fernanda Pivano ed era stata sua allieva nei pochi mesi che aveva insegnato come supplente nella scuola Massimo D’Azeglio; si trattava di una ragazza bella, corteggiata, elegante e felice. Per Cesare rappresentava il modo di uscire dalla sua solitudine e, tutto intento a conquistarla intellettualmente, non chiese mai a Fernanda di baciarla.
Le leggeva le poesie di Montale, di Ungaretti e talvolta anche le sue. La pressione psicologica che si sentì esercitare spinse Fernanda a cambiare la sua vita da un piano di mondanità e allegria a un piano di studio per il quale poteva avvalersi delle acute intuizioni di Cesare Pavese. Poi un giorno lo scrittore ebbe il coraggio di chiederle la mano, ma Fernanda era troppo giovane per rispondergli di sì.
Nel 1943, con l’armistizio dell’8 settembre, Torino fu sottoposta ad una serie di bombardamenti e così Cesare andò a Serralunga di Crea, vicino Casale Monferrato, dove era sfollata sua sorella con la famiglia e questo periodo gli ispirò più tardi il racconto “La casa in collina”.
Finita la guerra, quasi volesse compiere un gesto di riparazione, si iscrisse al Partito Comunista iniziando anche una collaborazione con il quotidiano “L’Unità”. Nella redazione del giornale conobbe Davide Lajolo e poi Italo Calvino che portò alla casa Einaudi, dove nel frattempo aveva acquisito un ruolo di un certo rilievo, con l’intento di farlo conoscere (sua è la recensione a “Il sentiero dei nidi di ragno”, il primo romanzo di Calvino pubblicato nel 1947).
Nel 1947 uscì “I dialoghi con Leucò”, libro di non facile lettura che però fu il più caro a Pavese. Si tratta di una raccolta di dialoghi con se stesso in ognuno dei quali (dialoghi) gli interlocutori sono due figure della mitologia greca. Spesso lo scrittore se ne andava al paese natale dove lo aspettava il suo amico Pinolo Scaglione e con lui cercava fra gli abitanti i personaggi de “La luna e i falò” che uscì nel 1950, anno in cui gli venne assegnato il premio Strega.
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A Roma, nel frattempo, aveva conosciuto un’attrice americana, Constance Dawling, alla quale si ispirò per l’ultima raccolta di poesie, di cui alcune in lingua inglese, intitolata “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” che uscì postumo nel 1951, perché in estate, e precisamente nella notte fra il 27 e il 28 agosto 1950, Cesare Pavese si tolse la vita in una stanza d’albergo di Torino, ingerendo sedici bustine di sonniferi. Sul comodino, sulla prima pagina de “I dialoghi di Leucò” lasciò scritto: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.”
(fonte principale: “Il vizio assurdo” di Davide Lajolo)
Forse non tutti sanno che nella canzone “Alice”, Francesco de Gregori fa un riferimento abbastanza esplicito allo scrittore.
“… e Cesare perduto nella pioggia
sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina
e rimane lì
a bagnarsi ancora un po’
e il tram di mezzanotte se ne va
ma tutto questo Alice non lo sa…”
Durante la sua vita, e precisamente a partire dal 1935 fino alla sua morte nel 1950, Cesare Pavese scrisse un diario che venne pubblicato sotto il titolo “Il mestiere di vivere” nel 1952. Vogliamo qui riportare dei passi alcuni dei quali sono veri e propri aforismi:
5 ott.1938 “L’offesa più atroce che si può fare a un uomo è negargli che soffra”;
17 gen.1938 “…Perché il veramente innamorato chiede la continuità, la vitalità (lifelongness) dei rapporti? Perché la vita è dolore e l’amore goduto è un anestetico, e chi vorrebbe svegliarsi a metà operazione?…”;
7 giu.1938 “… La morte è il riposo , ma il pensiero della morte è il disturbatore di ogni riposo….”;
8 lug.1938 “… Tanto poco un uomo s’interessa dell’altro, che persino il cristianesimo raccomanda di fare il bene per amore di Dio…”;
4 mag.1939 “…La massima sventura è la solitudine, tant’è vero che il supremo conforto – la religione – consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio. La preghiera è lo sfogo con un amico. L’opera equivale alla preghiera, perché mette idealmente a contatto con chi ne usufruirà. Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con altri. Così si spiega la persistenza del matrimonio, della paternità, delle amicizie. Perché poi stia qui la felicità, mah! Perché si debba star meglio comunicando con un altro che non stando soli, è strano. Forse è solo un’illusione: si sta benissimo soli la maggior parte del tempo. Piace di tanto in tanto avere un otre in cui versarsi e poi bervi se stessi: dato che dagli altri chiediamo ciò che abbiamo già in noi. Mistero perché non ci basti scrutare e bere in noi e ci occorra riavere noi dagli altri…”;
9 set.1939 “La guerra imbarbarisce perché, per combatterla, occorre indurirsi verso ogni rimpianto e attaccamento a valori delicati, occorre vivere come se questi valori non esistessero; e, una volta finita, si è persa ogni elasticità di tornare a questi valori.”;
22 lug.1940 “Il sogno è una costruzione dell’intelligenza, cui il costruttore assiste senza sapere come andrà a finire.”;
28 lug.1940 “Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi.”;
13 feb.1944 “La ricchezza della vita è fatta di ricordi, dimenticati”;
6 sett. 1945 “Non è bello essere bambini: è bello da anziani pensare a quando eravamo bambini.”;
15 set.1946 “Aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettar niente che è terribile.”;
16 set.1946 “C’è un solo piacere, quello di essere vivi, tutto il resto è miseria.”;
21 lug.1947 “Si aspira ad avere un lavoro, per avere il diritto di riposarsi.”;
10 ago.1947 “I problemi che agitano una generazione si estinguono per la generazione successiva non perché siano stati risolti ma perché il disinteresse generale li abolisce.”;
18 ago.1950 “La cosa più segretamente temuta accade sempre. Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi?
Basta un po’ di coraggio.
Più il dolore è determinato e preciso, più l’istinto della vita si dibatte, e cade l’idea del suicidio.
Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l’hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio.
Tutto questo fa schifo.Non parole. Un gesto. Non scriverò più.
Lanfranco Bruzzesi
Imm. Wikimedia
A13
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Esperto musicale, collabora con psicolinea per la stesura di biografie di personaggi famosi, in particolare nel mondo della musica. Lanfranco Bruzzesi è inoltre il principale ispiratore dell’Associazione Culturale Ankon Cultura, che ha sede ad Ancona e che organizza conferenze, viaggi ed altri eventi culturali.